Il debito pubblico italiano alla fine del 2019 sfiorava i 2.410 miliardi di euro, superando il 135% del pil. Nonostante l’Italia si sia messa a dieta sin da inizio anni Novanta, riuscendo a chiudere ogni esercizio in avanzo primario con la sola eccezione nel 2009, i risultati non si vedono per effetto degli alti interessi pagati sui titoli di stato emessi. Negli ultimi 40 anni, avrebbero ammontato a circa 4.000 miliardi di euro, quasi 2,5 volte il nostro pil attuale. Il loro peso a bilancio esplose dal 1981, anno in cui la Banca d’Italia “divorziò” dal Tesoro, non avendo più l’obbligo di acquistarne il debito rimasto invenduto alle aste.
Dal 2015, la BCE acquista titoli di stato dell’Eurozona in proporzione al peso delle economie e questa misura, di recente potenziata per affrontare l’emergenza Coronavirus, viene applaudita dalla stragrande maggioranza di accademici e politici per l’impatto presumibilmente positivo che avrebbe sui conti pubblici e l’economia dell’area. Siamo dinnanzi a due pesi e due misure? Perché Bankitalia dovette cessare di “monetizzare” il debito pubblico italiano, mentre si chiede da più parti oggi a Francoforte di accrescere i suoi acquisti di bond per garantire ai governi costi di rifinanziamento quanto più bassi possibili?
La prima differenza risiede nelle condizioni macro. L’Italia di 40 anni fa era afflitta dall’inflazione a due cifre e che proprio nel periodo del divorzio galoppava intorno al 20%. Lo stato spendeva molto più delle sue possibilità e chiudeva i bilanci annualmente in deficit anche del 10% del pil. Nessuno aveva fiducia della lira, tant’è che dovette essere più volte svalutata da Bankitalia per ricondurla ai fondamentali più deboli della nostra economia.
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Le differenze con la BCE di oggi
L’Eurozona versa in condizioni del tutto diverse: partite correnti in attivo, frutto sia degli afflussi netti di capitali in parte dell’area (nord) e sia del saldo commerciale cronicamente attivo. In sostanza, l’euro è fondamentalmente solido per via della competitività delle imprese e della capacità di attrazione dei flussi finanziari dell’unione monetaria nel suo insieme. L’inflazione da anni non solo non è un problema, anzi giace su livelli ritenuti troppo bassi, per cui il QE studiato sull’esempio della Federal Reserve dal 2008 servirebbe proprio a iniettare liquidità sui mercati, con la speranza che fluisca alle imprese e le famiglie, traducendosi in stimolo per la crescita dei prezzi e dell’economia. I risultati sono stati ad oggi parzialmente deludenti.
Un effetto secondario perseguito dal QE consiste nello “svalutare” il tasso di cambio. Gli acquisti di bond ne abbassano i rendimenti e fanno defluire i capitali, indebolendo l’euro. Questo la BCE può permetterselo proprio perché il cambio negli anni passati è stato abbastanza forte e ancora oggi non risulta così basso, anzi ha ripreso ad apprezzarsi negli ultimi mesi, attestandosi ai massimi da due anni contro il dollaro. Bankitalia si trovava costretta, invece, a barcamenarsi tra alta inflazione e lira debolissima. La prima era alimentata dall’eccesso di spesa dello stato, che si traduceva in emissioni corpose di debito acquistate in prima battuta dalla banca centrale, con annessa liberazione di liquidità sui mercati.
Non a caso, il divorzio (non da solo, vedasi la fine della “scala mobile”) segnò l’avvio di una fase calante dell’inflazione italiana, pur avendo comportato un’esplosione della spesa per interessi, dovuta alla scarsa credibilità di cui i governi di quel periodo godevano tra il popolo degli investitori, a causa di politiche fiscali lassiste e dell’assenza di riforme economiche per potenziare la crescita nel medio-lungo termine. Se oggi la BCE può permettersi di monetizzare di fatto parte dei debiti sovrani è perché risulta credibile sui mercati, semplicemente perché è la banca centrale di 19 stati nel complesso non troppo indebitati, dove la disciplina fiscale e la stabilità dei prezzi rappresentano sin dalla nascita dell’euro pietre miliari dell’area. Anche per questo, attenzione a ciò che desideriamo per il dopo-Covid. Tornare al modello Bankitalia pre-1981 rischia di rivelarsi un boomerang per tutti.
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