Quante volte abbiamo sentito usare la celebre frase “la moneta cattiva scaccia quella buona”. Ma vi siete mai chiesti cosa significa nel concreto? Per spiegarvelo, dobbiamo andare indietro nel tempo. Nel XVI secolo, un tale Thomas Gresham, agente di cambiò per la monarchia britannica, formulò proprio quella legge che prese il suo nome e che viene riassunta nelle suddette poche parole. Ecco di cosa parliamo. Fino a qualche secolo fa, gli stati emettevano monete, alle quali veniva assegnato un valore pari a quello dei metalli che le componevano.
Va da sé che queste monete rovinate avessero minore valore, contenendo una quantità minore di metallo prezioso. Per questo, spesso venivano fuse e riconiate. Chi doveva ricevere un pagamento tendeva a non accettarle o almeno non al loro valore nominale, volendo evitare di ritrovarsi in possesso di monete dal valore intrinseco inferiore ed eventualmente rifiutate da terzi nelle transazioni. Viceversa, chi doveva effettuare un pagamento aveva tutta la convenienza a utilizzare quante più monete tosate, perché di fatto così consegnava alla controparte un valore reale più basso.
Questo ragionamento era molto in voga tra banche e agenti di cambio. Essi non accettavano in pagamento monete tosate dai clienti, mentre tendevano a pagare utilizzando quasi esclusivamente queste ultime. Dunque, accadeva che ricevevano in pagamento le monete nuove (buone) e man mano che le incassavano le conservavano, immettendo in circolazione solo quelle tosate (cattive).
Il valore di una moneta: possiamo possedere un piccolo tesoro senza saperlo
Il sistema monetario moderno
Da qualche secolo a questa parte, le monete vengono emesse esclusivamente in metalli inferiori e non preziosi. Pensate alla moneta da 1 euro: pesa 7,5 grammi e se dovesse contenere tutto oro, varrebbe oggi sul mercato all’incirca sui 350 euro. Se fosse composta solamente da argento, invece, varrebbe sui 4 euro. Inoltre, come possiamo notare, da diversi decenni le emissioni adottano il metodo della “zigrinatura” per evitare che i bordi delle monete vengano raschiati. E, in ogni caso, difficilmente troveremmo qualcuno che lo faccia per ricavarne metalli da rivendere, essendo questi di scarso valore e inferiori a quello nominale della moneta che compongono.
In generale, la legge di Gresham spiega bene la ragione per cui il sistema monetario bimetallico fallì. Esso si basava sull’assegnazione arbitraria di valore fisso a due metalli utilizzati per le emissioni. Ma quando il valore dell’uno sul mercato tendeva a salire o a scendere fortemente rispetto all’altro, le parti non si trovavano più d’accordo sulla quantità di monete da usare per regolare le transazioni. Ne seguiva la convenienza a “tosare” le monete, che a sua volta portava alla sparizione dalla circolazione di quelle buone e alla permanenza di quelle cattive.
La tecnologia ha reso possibile ormai da oltre un secolo l’emissione perlopiù di banconote, cioè di biglietti a cui viene assegnato un valore da chi li emette. Fino all’Accordo di Bretton Woods del 1971, pur con variazioni che vi erano state di periodo in periodo, tale valore rispecchiava la quantità di oro depositato presso la banca centrale. Da mezzo secolo a questa parte, invece, la banconota – e lo stesso vale per la moneta metallica – non rispecchia alcun deposito di oro, ma il suo valore è assegnato in maniera arbitraria e accettato per convenzione dal mercato.
Il peccato monetario dell’Occidente: l’abolizione degli accordi di Bretton Woods