Le tensioni tra Cina e America non erano state così forti da decenni come negli ultimi mesi. Complice il clima pre-elettorale negli States, la Casa Bianca accusa Pechino di avere diffuso il Covid nel mondo e ha posto fine all’accordo con Hong Kong, che ad oggi regolava le relazioni economiche tra le parti in maniera privilegiata rispetto a quelle intrattenute direttamente dalle prime due super-potenze. Donald Trump è un sostenitore del “re-shoring”, la relocalizzazione delle imprese dall’Asia all’Occidente.
Che le relazioni tra stati siano ormai divenute molto intrecciate per reciderle con l’accetta lo segnala anche il fatto che la Cina detenga 1.070 miliardi di dollari in Treasuries (al 31 luglio 2020), risultando secondo creditore dell’America dopo il Giappone (1.200 miliardi). Cosa succederebbe se decidesse di non rinnovare più il debito USA alla scadenza o se iniziasse a venderlo per ritorsione contro Washington? In teoria, sarebbe un grosso problema. Ad oggi, gli americani possono permettersi di investire e prendere a prestito denaro a bassi tassi, grazie alla credibilità di cui gode il loro dollaro, che spinge gli investitori di tutto il mondo ad acquistarne i debiti.
Si direbbe che la Cina abbia il coltello dalla parte del manico. La verità è che il coltello in questione è senza manico e chi volesse impugnarlo per far male all’altro rischierebbe di ferirsi gravemente alla mano. Come funziona il rapporto quasi simbiotico sino-americano? L’America compra beni e servizi dalla Cina per centinaia e centinaia di miliardi netti all’anno. Questi flussi di denaro finiscono sui conti della banca centrale cinese, che ha accumulato oltre 3.100 miliardi di riserve valutarie. Buona parte di esse viene impiegata per l’acquisto di titoli del debito americano, che oltre ad essere dollari a tutti gli effetti, hanno anche il pregio di essere fruttiferi.
La Cina manda un pizzino a Trump sui Treasuries, ma tra minacce e fatti ve ne corre
La minaccia a vuoto della Cina
Se la Cina vendesse tutto o gran parte dei Treasuries, non percepirebbe alcun rendimento dall’immensa liquidità in dollari detenuta e, anzi, se dovesse convertire quest’ultima in yuan, finirebbe per apprezzare il proprio tasso di cambio, rendendo le proprie imprese meno competitive. E le vendite massicce di titoli USA si ritorcerebbero come un boomerang contro la stessa Pechino, che il resto del mondo vedrebbe come irresponsabile e fonte di instabilità finanziaria. A quel punto, anche economie come l’Unione Europea alzerebbero la voce e adotterebbero misure protettive contro i cinesi.
Peraltro, i 1.070 miliardi di debito in mano alla Cina possono sembrare tanti, ma incidono per meno del 5% del PIL americano. Nel 2011, la Cina arrivò a detenere fino a 1.300 miliardi di Treasuries, pari a oltre l’11% del PIL di allora. Negli anni seguenti, specie a partire dal 2015, ha ridotto le sue detenzioni di oltre 200 miliardi, ma i rendimenti americani sono scesi, anziché salire. Nel 2011, il decennale arrivò ad offrire fin oltre il 3,50%, oggi rende 5 volte meno. E’ il segno che per questi titoli la domanda resti sempre elevata, pur essendo possibili carenze temporanee nel caso di “sell-off” cinese imprevisto e di grande entità.
Attenzione, però, perché la Cina segherebbe l’albero su cui sta seduta. Non solo scatenerebbe le ire di qualsivoglia inquilino alla Casa Bianca, con tanto di ridiscussione delle relazioni commerciali e finanziarie; se davvero riuscisse nell’intento di far male all’economia americana, le prime vittime sarebbero le sue imprese, che vi esporterebbero meno prodotti e servizi, registrando un eccesso di offerta. Finché il dollaro sarà “The King” nel mondo, non ci sarà modo per i funzionari di Xi di azionare il tasto “sell” e provocare gli sconquassi eventualmente desiderati per infliggere una punizione al “nemico” USA.
Debito USA, Cina non più primo creditore, Pechino vende Treasuries