Il regime dell’ayatollah ha dichiarato con soddisfazione la vittoria sui “nemici” interni e presunti eterodiretti dai soliti poteri stranieri. Il bilancio delle proteste contro l’aumento del prezzo per la benzina in Iran si è rivelato pesantissimo. I morti sarebbero “centinaia” per alcune fonti estere, non meno di 106 in 21 città per Amnesty International. Il governo, con la benedizione dell’ayatollah Khameini, aveva annunciato che il prezzo sussidiato per l’acquisto del carburante sarebbe lievitato a 15.000 rial per i primi 60 litri al mese e a 30.000 rial per i litri eccedenti, tagliando cospicuamente i sussidi elargiti sinora, con prezzi di appena 20.000 rial per i primi 250 litri al mese.
In sostanza, un automobilista iraniano avrebbe pagato, se la proposta non fosse stata ritirata, almeno il 50% in più, pur sempre solo 30 centesimi di dollaro al litro contro i 20 di prima. Da noi, dove il prezzo alla pompa per la verde si aggira sopra 1,50 euro al litro, sembra impensabile che si protesti così duramente contro un rincaro percentualmente elevato, ma in valore assoluto esiguo. Ma l’Iran non è l’Europa e né l’America. Qui, la popolazione fa da troppo tempo i conti con un tenore di vita relativamente basso e molto dipendente dalla congiuntura politica, oltre che del petrolio.
Il rial vale circa un millesimo di quando ancora c’era al potere lo Shah. La nascita della Repubblica Islamica avrebbe dovuto sradicare la corruzione e portare benessere diffuso alla popolazione, ma così non è stato. Con il ripristino delle sanzioni americane contro le esportazioni di petrolio, queste sono crollate del 90% in appena un anno, scendendo alla cifra risibile di circa 200.000 barili al giorno. Malgrado il crollo, la bilancia commerciale iraniana si mostra positiva, cioè le esportazioni non petrolifere, anch’esse in calo, nei primi 7 mesi dell’anno di calendario locale (21 marzo – 21 ottobre) hanno superato le importazioni di circa 1 miliardo di dollari.
Strage in Iran, centinaia di morti per le proteste sul caro benzina
L’Iran si ribella contro una crisi in stile Venezuela
Quel che in apparenza sarebbe un dato positivo, però, riflette la caduta dei consumi iraniani, legata alla crisi dell’economia, ma anche alla difficoltà per imprese e individui di accedere ai dollari per acquistare beni e servizi dall’estero. Nei mesi scorsi, ad esempio, è esploso il caso dei pannolini sempre più carenti sugli scaffali dei supermercati. Come nel Venezuela “chavista”, anche l’Iran vive un drastico ridimensionamento dei consumi, la lievitazione dei prezzi con un’inflazione esplosa in pochissimi mesi dal 10% fino al 50% e un crollo dei redditi. Il caro carburante s’inserisce in questo contesto, diventando la miscela esplosiva per scatenare le proteste di piazza.
L’Iran, a differenza dell’Arabia Saudita, non dispone di riserve valutarie a cui attingere per attutire i suoi deficit di bilancio, per quanto questi siano molto più esigui. Il calo delle entrate fiscali, quindi, non può essere ammortizzato e, pertanto, bisogna o alzare le tasse o tagliare la spesa pubblica o fare entrambe le cose (impopolari). Non essendo nemmeno meta dei capitali esteri, le sue aziende dipendono dallo scarso mercato del credito interno, sotto-investono e risultano poco competitive, oltre che inefficienti. Le stesse estrazioni di petrolio registrano difficoltà operative e la vendita del greggio sul mercato interno adesso deve essere razionata per lasciar il posto a quelle poche esportazioni ancora consentite, che generano i preziosi dollari con cui consentire agli iraniani di importare e avere un carrello della spesa più pesante.
E in Iran scoppia la crisi dei pannolini
Ma Teheran non è l’unico teatro di proteste sanguinarie per l’aumento della benzina. Di recente, è accaduto lo stesso in Ecuador, dove il presidente Lenin Moreno ha dovuto ritirare lo screditato “paquetazo”.