E’ stato un venerdì nero per le borse mondiali, che avevano già iniziato male la seduta in scia alle preoccupazioni per l’annunciato rialzo dei tassi BCE. Le perdite hanno subito un’accelerazione sul dato dell’inflazione americana a maggio. Anziché scendere, come era stato pronosticato, ha subito un’accelerazione all’8,6%, dato record dal 1981, superando il precedente massimo dell’8,5% a marzo. Nel frattempo, i salari orari negli USA sono cresciuti del 3% in meno. E’ stato il 14-esimo mese consecutivo di crescita salariale inferiore all’inflazione.
Sta di fatto che la Federal Reserve esce screditata su tutta la linea. Aveva negato che l’inflazione fosse un problema, definendola fino a qualche mese fa “transitoria”. Adesso, non solo alza i tassi e prospetta una stretta rigorosa anche per luglio, ma è costretta anche a ridurre il bilancio. Il punto è che sta in forte ritardo. Al momento, i tassi d’interesse sono fissati all’1%, a fronte di un’inflazione all’8,6%. Sono estremamente negativi e lo resteranno ancora a lungo.
Dall’inflazione al rischio recessione
In Europa, va molto peggio. La BCE deve ancora avviare la stretta monetaria e cessare gli acquisti di bond, mentre nell’Eurozona l’inflazione è schizzata a maggio all’8,1%. I tassi reali nell’area sono a -8,6%. Per recuperare il tempo perduto, Christine Lagarde ha prospettato un rialzo dei tassi dello 0,50% a settembre. In ogni caso, pochissima roba. E a differenza degli USA, parte dell’Eurozona neppure riesce a sostenere tale aumento del costo del denaro, a causa dell’alto debito pubblico. Parliamo principalmente dell’Italia, il cui spread è esploso nelle ultime sedute.
Fino a qualche settimana fa, sui mercati girava la sensazione che l’inflazione stesse toccando il picco e che la sua decelerazione avrebbe già forse in estate creato le condizioni per ridurre il grado di restrizione monetaria nel Nord America e in Europa.