In questa campagna elettorale pensavamo di averle sentite tutte. Invece, come accade nelle migliori serie TV su Netflix, ogni giorno sembra esserci sempre più un crescendo di novità sensazionali e colpi di scena. Così restiamo, giorno dopo giorno, in ansiosa attesa dell’ultima puntata di venerdì 23 settembre, quella prima delle elezioni. Un tweet di Enrico Letta di qualche giorno fa ha suscitato molto clamore fra lettori ed elettori, e merita più attenzione di quanto si può pensare:
Il nostro programma supera il Jobs Act sul modello di quanto fatto in Spagna per combattere il lavoro povero e precario.
Il blairismo è archiviato. In tutta Europa sono rimasti solo Renzi e Calenda ad agitarlo come feticcio ideologico.
Letta rinnega il Jobs Act
Comunque la si pensi, più chiaro di così il segretario del PD non poteva essere. Dopo avere rinnegato il Rosatellum, la legge elettorale scritta dall’allora parlamentare dem Ettore Rosato, è arrivato, dunque, anche il momento del Jobs Act. Si tratta della riforma del lavoro varata tra il 2014 e il 2015 dal governo Renzi, cioè dal PD stesso. Essa ha reso più flessibile il mercato del lavoro. Due sono le novità chiave che anche allora hanno fatto molto discutere:
- nessun obbligo di reintegro per il lavoratore licenziato senza giusta causa nei primi tre anni dalla data di assunzione per le imprese fino a 15 dipendenti;
- incentivi fiscali legati alle assunzioni a tempo indeterminato.
La norma fu particolarmente criticata a sinistra, ma il PD l’aveva difesa praticamente fino a questa settimana. I risultati dicono che da inizio 2015, quando il Jobs Act effettivamente è entrato in vigore dopo l’emanazione dei decreti attuativi, i posti di lavoro creati sono stati 1 milione. Il tasso di occupazione è salito da meno del 56% al 60,3%. Il tasso di disoccupazione, invece, è sceso dal 12,6% al 7,9%. Si può dibattere su quanto su questi numeri e percentuali abbia inciso la sola riforma in sé o altri fattori come gli sgravi fiscali.
L’abbandono del blairismo
A ogni modo, che Letta stia rinnegando, in modo oltretutto molto chiaro e deciso, una riforma del suo partito ha davvero del clamoroso. Dopo decenni passati a inseguire il modello blairiano e clintoniano, il Nazareno si riscopre più mediterraneo, socialdemocratico e meno liberal che mai. Uno strategico spostamento a sinistra, che forse il segretario persegue al solo fine di recuperare consensi tra gli elettori “grillini” delusi dalla “scatoletta di tonno”. Quella scatoletta rimasta chiusa invece per ormai oltre un decennio. Tutto ciò, ovviamente, preso atto che il PD non ha più spazi al centro con Renzi e Calenda scesi in campo autonomamente, I due politici hanno dato vita infatti a una nuova formazione partitica. Anche se quest’ultima ai più attenti appare già piuttosto traballante.
E’ vero che il PD renziano è stato una mutazione genetica di un partito storico che ha sempre fatto della sua bandiera proprio la tutela della classe operaia. Il suo corpaccione, infatti, arrivava proprio dal vecchio PCI. Ma, adesso, il passo indietro annunciato sui social sul Jobs Act sembra aprire una fase del tutto nuova per il PD dopo le elezioni. I dem hanno capito che la svolta centrista dell’ultimo decennio non ha portato loro alcun vantaggio elettorale e, anzi, gli ha fatto perdere consensi in maniera apparentemente irreversibile e pesante. Nel 2007, il PD nacque con l’ambizione di diventare un partito “a vocazione maggioritaria”, cioè in grado di raccogliere così tanti voti da poter eventualmente governare persino da solo.
Da allora, non ha fatto che arretrare alle urne: con Walter Veltroni raggiunse il 34% nel 2008, ma nel 2013 già scendeva al 25,4% e nel 2018 sprofondava sotto il 20%.