Perché l’Italia ha puntato poco sui bond lunghi e non ha emesso BTp a 100 anni

Il Tesoro non ha emesso alcun BTp a 100 anni, neppure quando le condizioni di mercato suggerivano di farlo. Ed è stato un errore.
2 anni fa
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BTp 2039 4,15%, rendimento in asta crollato
BTp 2039 4,15%, rendimento in asta crollato © Licenza Creative Commons

La stagione dei tassi super-bassi si è conclusa da mesi e forse non tornerà presto. Anzi, non sappiamo neppure se tornerà mai nei termini che abbiamo conosciuto negli anni passati. Con la pandemia, i rendimenti a lunghissima scadenza sono arrivati a scendere mediamente al 2% tra gli ultimi mesi del 2020 e i primi del 2021. Era la fase in cui si speculava, per la verità più da un punto di vista giornalistico, sull’opportunità di emettere un BTp a 100 anni. Lo ha fatto l’Austria con due scadenze negli ultimi cinque anni.

Nel caso di Vienna, i rendimenti sono crollati fino a un minimo storico dello 0,35%. L’Italia verosimilmente non avrebbe piazzato il suo bond ultra-lungo a un tasso inferiore al 2,50% nei momenti migliori.

In ogni caso, ciò non è avvenuto. Alla fine di settembre, avevamo 2.271 miliardi di debito pubblico espresso in titoli di stato per una durata media ponderata di 7,12 anni. Sarebbe stato opportuno allungare tale vita media, così da esporci meno al rischio tassi. Invece, al termine della scorsa settimana risultavano appena 162,5 miliardi di euro di bond emessi con scadenze residue superiori ai 20 anni. In altre parole, l’Italia avrebbe potuto fare molto meglio nei periodi delle vacche grasse.

Vi facciamo un esempio per capire meglio. Se avessimo emesso un BTp a 100 anni a inizio 2021, verosimilmente lo avremmo potuto piazzare sul mercato con cedola 2,50%, tenuto conto dei rendimenti vigenti per il BTp a 50 anni in area 1,75%. Questo significa che il titolo ci sarebbe costato nel corso della sua intera e lunghissima vita 2,5 miliardi di euro lordi per ogni 1 miliardo emesso.

BTp a 100 anni alla lunga preferibile

Tuttavia, negli stessi mesi emettere un BTp a 10 anni ci costava la media dello 0,75%. Qualcosa come 75 milioni di euro per ogni 1 miliardo nell’arco del decennio. Si capisce perché lo stato abbia scelto la prima opzione.

Giusto, ma alla scadenza il BTp a 10 anni sarà rifinanziato ai rendimenti di mercato per allora vigenti. Non sappiamo quali saranno, ma sappiamo che la loro media storica nell’era euro è stata del 4%. Dunque, statisticamente ci dovremmo attendere un 4% all’anno per i decenni a venire. Ieri, il titolo offriva il 4,75%.

Ebbene, applicando tale media storica per i 90 anni che rimarrebbero da qui ai successivi 100 anni, troviamo che rinnovare il BTp a 10 anni di decennio in decennio ci costerebbe qualcosa come quasi 3,7 miliardi. Un conto ben più salato dei 2,5 miliardi (fossero anche di più) che avremmo spuntato con l’emissione di un BTp a 100 anni nel periodo a noi più propizio sul mercato. Inoltre, avremmo allungato la vita del debito e segnalato agli investitori di essere più “resilienti” ai tassi. Nel breve periodo ci sarebbe costato di più, nel lungo di meno. Ma i governi, spesso per ragioni di bilancio, sono costretti ad accontentarsi dell’uovo oggi, anziché della gallina domani. I risultati sono sotto gli occhi di tutti.

Abbiamo dissertato sul possibile lancio del BTp a 100 anni, ma in realtà avremmo anche solo potuto puntare maggiormente sulle scadenze a 50 anni. Il BTp 2067 ha raccolto in tutto poco più di 9,6 miliardi, il BTp 2072 appena 5 miliardi. Insieme, incidono per appena lo 0,6% dei titoli di stato in circolazione. Si sarebbe dovuto e potuto fare di più. Adesso allungare il debito pubblico diventa complicato. Lo sarà persino mantenere la vita media attuale. Il Regno Unito, nell’occhio del ciclone in queste settimane per la sua cattiva gestione dei conti pubblici, è riuscito nell’ultimo decennio ad approfittare dei bassi tassi per allungare la vita al suo debito sovrano a una media di oltre 18 anni. E ne aveva decisamente meno bisogno di noi.

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Giuseppe Timpone

In InvestireOggi.it dal 2011 cura le sezioni Economia e Obbligazioni. Laureato in Economia Politica, parla fluentemente tedesco, inglese e francese, con evidenti vantaggi per l'accesso alle fonti di stampa estera in modo veloce e diretto. Da sempre appassionato di economia, macroeconomia e finanza ha avviato da anni contatti per lo scambio di informazioni con economisti e traders in Italia e all’estero.
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