Il governatore della BCE, Christine Lagarde, ha voluto dire la sua in pieno negoziato sul Recovery Fund, quasi ad avvertire i capi di stato e di governo della UE: meglio prendersi qualche giorno di tempo in più, piuttosto che raggiungere in fretta un accordo al ribasso. Giovedì scorso, l’istituto ha mantenuto invariati i tassi e gli stimoli monetari. Non poteva fare altrimenti, in attesa che dal giorno seguente le acque a Bruxelles si smuovessero sul piano della politica fiscale comune da adottare, in risposta alla crisi provocata dalla pandemia.
BCE: tassi di interesse e QE invariati, ma resta pronta ad agire
Ad oggi, Francoforte è stata l’unica istituzione capace di fornire una reazione per tutta l’Eurozona, prima potenziando il “quantitative easing” di 120 miliardi quest’anno e subito dopo varando un piano di acquisti emergenziali per complessivi 750 miliardi, saliti a 1.350 miliardi nel corso dei mesi. Ma da prima ancora che divampasse l’emergenza Covid-19, quando ancora all’Eurotower c’era Mario Draghi, la banca centrale aveva avvertito che il rilancio dell’economia nell’area sarebbe passato dal combinato tra politica monetaria e quella fiscale.
Urge, quindi, una risposta dei governi che accompagni quella della BCE nella lotta alla crisi, potenziandola. Le divisioni tra stati hanno fatto temere il fallimento totale del negoziato, anche se nelle ultime ore sta prevalendo l’ottimismo. Di certo, c’è che senza un accordo, Lagarde resterebbe con il cerino in mano e non potrebbe che dover aumentare gli stimoli monetari per rassicurare i mercati finanziari sulla capacità dell’area di porre sotto controllo la crisi. Anche per questo, tra gli investitori nell’Eurozona si registra una certa calma nelle ultime settimane, consapevoli che il paracadute offerto già ai paesi fiscalmente più deboli verrebbe semplicemente rafforzato nel caso di flop sul Recovery Fund.
Rischi nel medio termine
Se, invece, l’accordo si trovasse, pur al ribasso, com’era prevedibile alla vigilia, la BCE potrebbe permettersi di lasciare inalterato l’apparato degli stimoli, non tanto perché le cifre in gioco consentirebbero realmente agli stati di sfoltire le emissioni future di debito in misura significativa, quanto per il significato di sostegno ai paesi fiscalmente più in crisi che arriverebbe ai mercati.
Un accordo abbasserebbe anche la temperatura a Francoforte, dove nelle ultime settimane stanno montando le divisioni tra “falchi” e “colombe” sull’entità e la durata degli stimoli. I primi otterrebbero un minore grado di accomodamento per il prossimo futuro, non appena le condizioni macro lo iniziassero a rendere possibile. Le seconde avrebbero dalla loro la garanzia di un mix di politica economica più congruo rispetto alle esigenze. In sostanza, l’accordo allenterebbe le tensioni nel breve termine, ricreandone verosimilmente di altre nel medio, quando la Bundesbank guiderà, a maggior ragione, il fronte di chi ritiene che i tassi vadano alzati dai minimi storici a cui sono sprofondati, partendo da quelli imposti sui depositi overnight, e che gli acquisti di assets debbano essere ridotti, se non del tutto cessati.