Il XIX Congresso del Partito Comunista Cinese ha confermato la leadership del presidente Xi Jinping e nel nuovo Politburo non compare nemmeno un potenziale erede alla successione, cosa che farebbe intendere che il capo dello stato resterà possibilmente in carica anche oltre il 2022, diventando nei fatti il nuovo Mao Zedong, tanto che già il suo nome si è deciso che verrà inserito nella Costituzione, al rango del fondatore della Repubblica Popolare Cinese e di Deng Xiaoping. Aldilà dei nomi, uno dei fatti più importanti che stanno avvenendo a Pechino negli ultimi mesi riguarda il mercato energetico.
La Cina è il primo importatore di petrolio al mondo con una media a luglio di 11,67 milioni di barili al giorno, in crescita del 6% su base annua. Il suo primo fornitore è diventata la Russia con circa 1,5 milioni, seguita dall’Arabia Saudita con poco oltre 1 milione. Numeri in ascesa anche per l’Iran, tornata dall’inizio del 2016 a esportare petrolio a pieno ritmo, con il ritiro delle sanzioni internazionali. All’inizio di settembre, nel corso di una riunione con i leaders di altre economie emergenti, il governo cinese ha offerto ufficialmente ai partner commerciali stranieri la possibilità di regolare i pagamenti per l’acquisto di petrolio in yuan, sostenuti da contratti futures sull’oro. Chiunque accettasse tale soluzione, in alternativa all’uso del dollaro, otterrebbe condizioni commerciali di favore. La Cina vorrebbe fare pesare il suo status di primo consumatore energetico mondiale, imponendo le proprie condizioni. (Leggi anche: Bomba cinese contro i petrodollari: cambia tutto, America minacciata)
L’Asia cerca la fine dei petrodollari
Non siamo ancora all’aut-aut, ma Pechino sembra volere percorrere la via del cosiddetto “petroyuan”, al fine di rendere la propria moneta rilevante negli scambi internazionali e degnamente in grado di competere con quella di riserva mondiale, il dollaro. Non sarà facile convincere gli altri paesi ad accettare pagamenti in yuan, anziché nella divisa americana.
Tuttavia, alcune potenze regionali favorirebbero il nuovo corso. Essi sono essenzialmente Russia e India, ma alle quali potrebbero aggiungersi presto anche Arabia Saudita e Iran. Mosca ha già siglato con Pechino un contratto trentennale da 400 miliardi di dollari per l’esportazione di gas, attraverso un pipeline di nuova costruzione in Siberia da 55 miliardi. E la Russia intende esportare gas anche in India, ma per farlo dovrà attraversare il territorio cinese e compiere un tragitto di ben 6.000 km. Pechino darebbe il suo permesso e chiaramente pretenderebbe qualcosa in cambio: e se fosse proprio i contratti in yuan? (Leggi anche: Che succede se l’Asia attacca i petrodollari?)
L’incubo per gli americani della fine di un’era
Che dire, infine, di Riad? I sauditi sono legati agli USA da uno storico accordo voluto da Henry Kissinger sotto l’amministrazione Nixon, teso a scambiare petrodollari con una forte presenza militare americana nell’area, a tutela del regno. Tuttavia, negli ultimi tempi sta maturando la convinzione che l’America non sia più un alleato per il mercato petrolifero, importando sempre meno e producendo sempre più. Da qui, la ricerca di mercati di sbocco alternativi nell’Asia delle economie emergenti a rapidi passi, come Cina e India. E l’Iran non se lo farebbe dire due volte di bypassare il dollaro per accettare pagamenti in yuan. Niente ancora di automatico per svariate difficoltà tecniche, ma Pechino starebbe gettando il cuore oltre l’ostacolo, nell’impresa storica di fare di questo il proprio secolo.
In un altro articolo, vi abbiamo spiegato quanto doloroso sarebbe, in termini economici, per gli americani rinunciare al sistema dei petrodollari, che ha consentito loro di vivere al di sopra delle proprie possibilità, ma accumulando disavanzi commerciali cronici e debiti nel pubblico, così come nel privato.
Crescita cinese con troppi debiti
In termini nominali, il servizio sui crediti ottenuti supera la crescita del pil. In buona sostanza, la Cina è colta da una gigantesca e pericolosissima bolla finanziaria, che se esplodesse scatenerebbe un inferno in tutto il pianeta, trattandosi della seconda economia mondiale. D’altra parte, i cinesi continuano ad esportare più di quanto importino, con un avanzo commerciale verso la sola America di quasi 350 miliardi di dollari. Ciò significa che cresce vendendo al resto del mondo. Spostare le direttrici della crescita dalle esportazioni ai consumi interni è un’operazione resa complessa proprio dalla bolla del credito, la quale richiede bassi tassi d’interesse e un cambio sotto controllo.
Immaginiamo che i petrodollari fossero non del tutto sostituiti, ma almeno affiancati dai petroyuan. La domanda di valuta cinese aumenterebbe e ciò rafforzerebbe da un lato il cambio di Pechino, dall’altro ne ridurrebbe i tassi. In questo modo, l’economia cinese si americanizzerebbe un po’, esportando di meno e consumando di più. Il resto del mondo vedrebbe aumentare le proprie esportazioni e così la Cina offrirebbe al pianeta un contributo positivo alla sua crescita. Il passaggio da un’economia “export-led” a una più matura, caratterizzata da una maggiore incidenza della domanda interna, sarebbe più dolce, e con accortezza diverrebbe più facile anche sgonfiare la bolla del credito, riconducendola a una dimensione sostenibile.
Quell’immenso debito commerciale verso la Cina, che il presidente Donald Trump ha promesso agli americani di azzerare, si ridurrebbe quasi automaticamente, sebbene il costo che verrebbe richiesto a Washington sarebbe quello di subire gli effetti di interessi più elevati, ma in cambio di un dollaro più debole e di esportazioni più robuste. Da un simile compromesso passerebbe la svolta del secolo, anche se le parti in causa non si mostrano affatto intenzionati a trattare su un punto che sembra loro irrinunciabile: il predominio finanziario e geo-politico nel mondo. Le tensioni nord-coreane lo segnalano.