Ci sono brutte notizie sul fronte del petrolio, con il Brent ad essere risalito sopra 80 dollari al barile. Rispetto ai minimi di giugno, siamo dinnanzi a rialzi di oltre il 10%. Un boom che rischia di rallentare la discesa dell’inflazione presso le economie importatrici. Può sembrare paradossale che il greggio rincari mentre l’economia mondiale rallenta. Lo sarebbe, se non fosse che non è la maggiore domanda a trainare le quotazioni, bensì la minore offerta. Per tre volte in tre mesi è intervenuta l’OPEC, l’organizzazione dei paesi esportatori con sede a Vienna e di fatto guidata dall’Arabia Saudita.
Golfo Persico tiene alti prezzi
Il cartello stima per l’anno prossimo una domanda in crescita del 2,2% rispetto al 2023. Anche questo ottimismo sta contribuendo a scaldare i prezzi. Tuttavia, la storia è quasi tutta legata ai tagli dell’offerta. Riad non ha intenzione di rinunciare agli enormi profitti generati dal caro barile sin dall’anno scorso. E il resto del Golfo Persico concorda dopo avere vissuto anni di magre entrate fiscali a causa dei prezzi sottotono sui mercati internazionali. C’è anche da dire che il rialzo dei prezzi del petrolio è parzialmente dovuto all’indebolimento del dollaro, che sul mercato forex perde terreno contro le principali valute mondiali.
Le prospettive non sembrerebbero esaltanti per paesi importatori come l’Italia. Già con la modalità servito un litro di benzina è arrivata in alcuni casi a 2 euro. Di questo passo le principali banche centrali faticheranno più del previsto per centrare la stabilità dei prezzi. Per fortuna, però, ciò che l’OPEC toglie con una mano, con l’altra può dare. Un eventuale indebolimento della congiuntura mondiale richiederebbe verosimilmente ulteriori sforzi al cartello.
OPEC disunito al suo interno
L’OPEC è tutt’altro che unito. E’ composto da paesi tra loro persino nemici, come l’Arabia Saudita e l’Iran. Pur di giungere all’obiettivo di sostenere le quotazioni internazionali, il regno si è addossato gran parte dei tagli annunciati nei mesi scorsi, limitandosi ad ottenere dagli alleati il tetto invariato alle rispettive quote di produzione. Ma le tensioni con gli Emirati Arabi Uniti stanno montando da mesi. I due paesi, sino ad ora ferrei alleati nel Medio Oriente, quasi non si parlano più. Si sono moltiplicati i conflitti per interessi contrastanti nell’area. E gli Emirati Arabi puntano ad aumentare la loro offerta a 4 milioni di barili al giorno dai 2,8 milioni attuali. Tra l’altro, posseggono una capacità massima estrattiva di 5 milioni di barili al giorno.
C’è grande frustrazione ad Abu Dhabi, perché minori estrazioni equivalgono a decine, se non centinaia di miliardi di dollari di minori ricavi. Negli altri paesi non va certo meglio. Tra i principali produttori troviamo l’Iraq con 4 milioni di barili al giorno e una necessità impellente di aumentare le riserve valutarie, onde evitare una crisi della bilancia dei pagamenti. Non può certo permettersi di tagliare la propria offerta l’Iran, salita di recente a 2,5 milioni di barili al giorno dopo anni di embargo dell’Occidente. Inaffidabile la Libia, dove gli scontri interni non rendono possibile una programmazione attendibile della produzione. E nell’OPEC c’è anche il Venezuela, già a livelli di estrazione inferiori alla sussistenza.
Improbabili nuovi tagli offerta petrolio
Per farla breve, se occorressero nuovi tagli all’offerta, dovrebbero accollarseli ancora una volta solamente i sauditi. E non è detto che funzionerebbero. La stessa Russia, che collabora con l’OPEC dall’esterno, inizia a risentire del calo delle entrate e per questo sta indebolendo il cambio, con tutto ciò che comporta in termini di stabilità dei prezzi e finanziaria interna.
C’è anche il rischio per il regno che gli alleati ne approfittino per aumentare le rispettive quote di produzione per cercare di ricavare di più ai prezzi tenuti alti dai sauditi. Il cartello è intrinsecamente instabile per questa ragione. E questo fa sperare in positivo chi è costretto ad importare petrolio per soddisfare il proprio fabbisogno energetico.