Il prezzo del petrolio è salito ai massimi da esattamente tre anni. Bisogna risalire all’inizio dell’autunno del 2018 per trovare quotazioni simili. Ieri, il Brent è arrivato sopra i 78 dollari al barile. Quest’anno, segna un rialzo di circa il 50%. A trainare i prezzi è il deficit di offerta che il mercato mondiale registra in questa fase. Le scorte di greggio negli USA sono scese a 414 milioni di barili, ai minimi dall’ottobre 2018. La produzione americana continua a sostare nettamente sotto i livelli pre-Covid di circa 2,5 milioni di barili al giorno.
Nel frattempo, Goldman Sachs ha aggiornato le stime per il prezzo del petrolio a fine anno, elevandole da 80 a 90 dollari al barile. Si tratterebbe del valore più alto da sette anni a questa parte. La domanda, spiega la banca d’affari, si sta riprendendo più in fretta del previsto dalla variante Delta. In effetti, la quarta ondata dei contagi da Covid sembra che stia spegnendosi, sebbene non sia scontato che nei prossimi mesi ci saremo liberati dal virus.
Boom quotazioni petrolio, rischi per l’economia
Quotazioni così elevate rischiano di farla deragliare in vari modi. E poiché l’accordo tra USA e Iran sul programma nucleare sembra essersi allontanato dopo le elezioni presidenziali a Teheran, l’embargo sulle esportazioni di quest’ultima potrebbe durare ancora a lungo, contenendo l’offerta globale. Infine, in questa fase il petrolio torna centrale come fonte di energia dopo i forti rincari di questi mesi dovuti anche al flop delle energie rinnovabili. Da questo mese di settembre e fino a dicembre, gli stati produttori dell’OPEC Plus aumenteranno l’offerta complessiva di 400.000 barili al giorno ogni mese. Il cartello, guidato dall’Arabia Saudita, vede certamente di buon occhio la risalita delle quotazioni, ma non al punto di mettere a repentaglio la ripresa economica mondiale.
Per prima cosa, l’impatto di un petrolio a 80-90 dollari sarebbe negativo sui consumi: i prezzi di carburante, energia e prodotti trasportati su gomma aumenterebbero, riducendo il potere d’acquisto delle famiglie. Inoltre, alti tassi d’inflazione spingerebbero le grandi banche centrali a ridurre più in fretta del previsto gli stimoli monetari varati con la pandemia. I tassi d’interesse sui mercati salirebbero, i costi d’indebitamento di stati, imprese e famiglie crescerebbero parimenti e si ridurrebbero anche gli investimenti e gli stimoli fiscali.