Quotazioni del petrolio ai massimi da 32 anni. Bisogna tornare indietro al maggio del 2015 per trovarle così alte. Quelle del Brent sono salite a 67 dollari esatti mentre scriviamo, mentre il Wti americano viaggia a poco meno di 61 dollari. Al 26 dicembre scorso, le posizioni nette dei traders erano positive per 411.972 contratti, secondo la US Commodity Futures Trading Commission. Cosa ancora più importante è che risultano per l’undicesima settimana consecutiva in rialzo, segno che le scommesse sui mercati ormai sarebbero improntate all’ottimismo: +5,3% le nuove posizioni long e -11% quelle short.
E andando a guardare i dati sui futures, si scopre che per le consegne a dicembre 2018, il prezzo spuntato sarebbe mediamente di 63,84 dollari per il Brent, ovvero a circa 3 dollari in meno rispetto alle quotazioni attuali. Incongruenza? Non proprio. All’inizio del 2016, quando vi fu il crollo ai minimi da inizio Millennio e fin sotto i 30 dollari al barile, accadeva l’esatto contrario: i prezzi sui contratti futuri erano superiori a quelli spuntati sui barili negoziati per consegne più immediate. Allora, tale effetto, cosiddetto “contango”, rifletteva la volontà degli acquirenti di posticipare gli acquisti, mentre oggi gli stessi sarebbero disposti a pagare un “premio” per anticiparli.
Per capire la ragione di tanto ottimismo, bisogna guardare ad altri dati, stavolta derivanti dalle compagnie petrolifere del pianeta. Nel 2013 risultavano avere investito oltre 489 miliardi per scandagliare terre e mari alla ricerca di nuovi giacimenti, così come per sfruttare al meglio i pozzi esistenti. L’anno seguente, spendevano quasi 487 miliardi allo scopo, ma nel 2015 poco più di 351 miliardi e nel 2016 solo 245 miliardi, cifra dalle quali non discostano i risultati nel biennio seguente, considerando che per il 2018 si attendono capitali investiti per 261,6 miliardi (dati Bloomberg).
Meno investimenti, quotazioni attese in rialzo
Tra il 2015 e il 2020, quindi, vi saranno stati minori investimenti cumulati per 1.000 miliardi. E secondo Rystad Energy, lo scorso anno sono stati scoperti il corrispondente di 7 miliardi di barili di petrolio, appena l’11% della produzione del periodo, il tasso di sostituzione più basso dal 1940 e lontanissimo dal 50% del 2012. Non solo, perché nemmeno tutti i barili scoperti sarebbero commercialmente significativi, in quanto le risorse scoperte mediamente per ciascun pozzo risultano più basse, con la conseguenza che si stima che un miliardo dei nuovi barili venuti alla luce nel 2017 non sarebbero sfruttabili. Il costo per la realizzazione e lo sfruttamento di un pozzo è, infatti, altissimo e tale da richiedere volumi elevati per assumere una qualche valenza commerciale.
Fare previsioni sul futuro, tuttavia, appare un azzardo. Solamente 4-5 anni fa, si stava sovrainvestendo, evidentemente non cogliendosi appieno la portata del boom dello “shale”. E le quotazioni sprofondarono, in effetti, dai 115 dollari al barile di metà 2014 ai meno di 30 del gennaio 2016. Negli ultimi anni, invece, forse si sta sottoinvestendo, tanto che le quotazioni starebbero risalendo anche in attesa di un possibile deficit futuro di offerta, nonostante fino alla metà di quest’anno dovrebbe registrarsi ancora un lieve eccesso. Tornando ancora più indietro, appena 10 anni fa si aveva un greggio a 145 dollari al barile e calcolando l’inflazione cumulata da allora ad oggi, sarebbe come affermare che le attuali quotazioni sarebbero 100 dollari al di sotto di quelle di allora.
Quella del petrolio sembra una storia di “boom and bust”, destinata forse a ripetersi, se non fosse che rispetto al passato esistono un paio di variabili, che rendono le aspettative ancora meno perscrutabili: lo “shale” e le energie rinnovabili. L’OPEC stima insignificante l’impatto delle seconde sulla domanda almeno fino al 2040, ma parliamo della stessa organizzazione, che fino al 2014 non si era nemmeno accorto che gli USA fossero diventati tra i principali produttori al mondo di greggio, riducendo la loro cronica dipendenza dall’estero.