Tirano un sospiro di sollievo le economie produttrici di petrolio, dopo che i prezzi sono saliti del 38% rispetto ai minimi degli ultimi 5 anni e mezzo, toccati lo scorso 13 gennaio, quando le quotazioni scesero a 45 dollari al barile. In ogni caso, esse si attestano ancora al 46% in meno del picco dello scorso giugno e ciò sta trascinando l’economia russa in recessione, in associazione alle sanzioni dell’Occidente e al crollo del rublo. La Russia è il primo produttore di greggio al mondo con 10,6-10,7 milioni di barili estratti al giorno, il dato più alto dal 1986, quando ancora esisteva l’Unione Sovietica.
Le quote di mercato in Asia
Il perché di questa battaglia la spiegano le percentuali: la Russia è scesa nel 2014 da una quota di mercato del petrolio del 19% in Cina al 16%, anche se è salita allo stesso tempo dal 30% al 32% in Giappone. Complessivamente, in Cina, Giappone e Sud Corea (non disponibili i dati sull’India), la Russia ha aumentato le sue esportazioni da 41 a 51 milioni di tonnellate, l’Arabia Saudita è passata da 146 a 142 milioni, il Qatar a 30 milioni (-7,4%) e il Kuwait al 7% dal 7,2% del 2013 con 41 milioni. Perdere quote di mercato in Asia sarebbe come rinunciare al futuro, trattandosi non solo del maggiore consumatore di petrolio attuale, ma anche del mercato con le migliori prospettive, dato che le economie di America ed Europa sono sostanzialmente mature, a parziale eccezione dell’America Latina, mentre quelle asiatiche, come Cina, India e diverse altre sono in crescita rampante. Per questo, l’Arabia Saudita guarda con estrema preoccupazione alla possibilità che gli USA si trasformino in un esportatore di greggio, una volta soddisfatta la domanda interna, potendo strappare quote di mercato in Asia. Ciò ha portato alla rinuncia del taglio della produzione OPEC nei mesi scorsi, nella ferma convinzione di Riad che quotazioni più basse spingeranno le compagnie americane a tagliare gli investimenti e l’output, ritardando di anni quella data fatidica dell’auto-sufficienza. Lo scontro implicito tra Russia, Arabia Saudita e il resto del Golfo Persico sull’Asia sta facendo sorridere, intanto, paesi come Cina, India e Turchia, che possono produrre e importare da mesi a costi più contenuti, alleviando le spinte inflazionistiche interne.