Seduta negativa per il petrolio, i cui prezzi scivolano ai minimi dalla metà del novembre scorso, crollando nel nuovo range di 43-45 dollari al barile. In particolare, le quotazioni del Brent perdono alle ore 16.25 il 2,79% e arretrano a 45,60 dollari, quelle del Wti americano il 2,96% a 42,89 dollari. In appena un mese, il calo è nell’ordine del 15%. A scatenare le vendite sui contratti con consegna in agosto sono stati i dati relativi alla produzione di alcuni stati membri dell’OPEC. In Libia, l’offerta quotidiana è salita di oltre 50.000 barili a 885.000, ai massimi da 4 anni, mentre in Nigeria le esportazioni sono attese crescere di 62.000 barili al giorno in agosto a quota 226.000.
Considerando i picchi raggiunti dai prezzi a febbraio, possiamo formalmente affermare che il greggio è entrato nel mercato dell’orso (“bearish”), avendo perso da allora il 20% o più. Secondo gli analisti di Morgan Stanley, le scorte petrolifere in Cina, economie OCSE e alcuni stati non OPEC sono aumentate al ritmo di un milione di barili al giorno nel primo trimestre. (Leggi anche: Crollo petrolio e recessione mondiale)
Eccesso di offerta rimane
Le scorte rispecchiano l’eccesso di offerta e la loro crescita segnala, quindi, un allontanamento dall’equilibrio, quando si sperava in un avvicinamento con i tagli alla produzione decisi dall’OPEC e da altri 11 membri esterni per complessivi 1,8 milioni di barili al giorno. I dati del Dipartimento dell’Energia di Washington ci indicano che al 9 giugno scorso vi fossero scorte accumulate per 511,5 milioni di barili, quasi 110 milioni in più rispetto alla media del periodo nel quinquennio precedente.
E dalla sigla dell’accordo OPEC, la produzione di petrolio negli USA risulta cresciuta di 633.000 barili al giorno, oltre un terzo del taglio deciso dal cartello, mentre il numero dei pozzi attivi è salito di ben 192 unità, ai massimi dall’aprile di due anni fa. E così, in due settimane, i fondi speculativi hanno tagliato le posizioni nette rialziste di 91 milioni di barili al 13 giugno scorso.