La maledizione del petrolio per il Venezuela: servono 100 miliardi per estrarlo, PIL a -85% dal 2013

Il Venezuela ha trasformato una risorsa preziosa come il petrolio in una maledizione. L'economia è tornata ai livelli degli anni Ottanta.
4 anni fa
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La maledizione del petrolio in Venezuela

Stando agli stessi dati inviati dal Venezuela all’OPEC, nel mese di aprile il paese ha estratto appena 445 mila barili al giorno di petrolio. Prima che Hugo Chavez prendesse il potere alla fine degli anni Novanta, le estrazioni avevano toccato il massimo storico di 3,4 milioni di barili al giorno. Ad ogni modo, ancora nel 2015 si attestavano a 2,4 milioni.

Quella del petrolio in Venezuela è una storia raggelante di sperperi, corruzione e cattiva gestione di una risorsa preziosa. E dire che il “chavismo” nel paese andino si fosse affermato proprio nel nome di una gestione più assennata delle risorse petrolifere.

I numeri parlano da sé. Oggigiorno, un dollaro vale 3 milioni di bolivares, ma bisogna tenere conto che nell’agosto 2018 furono emesse nuove banconote con 5 zeri in meno. Dunque, un dollaro si scambia contro 300 miliardi di vecchi bolivares. Il cambio ufficiale fino a qualche anno fa era di 1:10 e prima ancora di 1:3. Un disastro provocato dall’iperinflazione, che attaglia l’economia venezuelana da ormai 4 anni.

Petrolio in Venezuela risorsa sprecata

Ma cosa c’entra il petrolio in Venezuela con tutto questo? Chavez ebbe la fortuna di arrivare al potere poco prima che le quotazioni sui mercati internazionali s’impennassero con lo sviluppo dell’economia cinese e delle altre emergenti. Si calcola che nei suoi anni di governo, cioè dal 1999 a inizio 2013, affluirono nelle casse dello stato ben 1.000 miliardi di dollari grazie al greggio. Ebbene, di tutto questo fiume di denaro non resta che la miseria di una popolazione affamata e in fuga per sfuggire alla povertà più estrema. Si stima che 5 milioni siano gli abitanti che hanno attraversato il confine per recarsi altrove, molti nella vicina Colombia.

Tornare ai livelli di estrazioni pre-Chavez richiederebbe almeno 58 miliardi di dollari di investimenti, stando alla compagnia statale PDVSA. Le opposizioni appaiono ben più pessimiste: servirebbero 98 milioni per tornare a 2,2 milioni di barili al giorno, la quantità estratta poco prima che iniziasse la lunga crisi.

Denaro, che Caracas certamente non ha. Dovrebbe trovarlo tra gli investitori stranieri, come attraverso gli Accordi per i Servizi alla Produzione. Lo schema consiste nel fare partecipare società straniere alle operazioni di trivellazione in nuovi campi e remunerarle con una quota dei ricavi generati.

Il problema è che il petrolio in Venezuela è sotto embargo dagli USA. Nessuna società estera si avvicina a Caracas, temendo di finire nella “lista nera” di Washington. Ma senza petrolio, l’economia del Venezuela semplicemente non esiste. Esso equivale al 99% delle esportazioni. In pratica, è l’unico bene venduto all’estero e la produzione di altri beni per il mercato interno è quasi inesistente, a causa della politica socialista imposta dal governo. Tra prezzi controllati e forti limitazioni alla libertà d’impresa, nessuno ormai produce nulla. E già prima di Chavez il parassitismo sociale era un fenomeno piuttosto diffuso.

L’illusione di vivere sopra le proprie possibilità

Dal 1998 al 2013, anno di inizio della crisi del Venezuela, le importazioni sono aumentate da 14,25 a 44,9 miliardi di dollari. Nel frattempo, le esportazioni schizzavano da 17 a 88 miliardi. Tuttavia, queste coincidevano sostanzialmente con il greggio. Gli altri beni esportati passarono da 5 a poco più di 2 miliardi. E lo stato regalò a tutti l’illusione di poter vivere sopra le proprie possibilità. I tassi d’interesse furono mantenuti appositamente sotto l’inflazione, con la conseguenza che il denaro non costava nulla e tutti potevano prenderlo a prestito per consumare, non già per investire. E così, l’indebitamento privato salì dal 12% al 30% del PIL, mentre tutti potevano fare benzina sottocosto. Tanto pagava lo stato.

Paradosso ancora più eclatante: le estrazioni di petrolio crollarono sotto Chavez, mentre il numero dei dipendenti di PDVSA triplicò. E nel 2002, quando la società reagì ai tentativi di controllo del governo con scioperi ad oltranza, la dirigenza fu semplicemente sostituita a favore di militari senza alcuna competenza nella gestione di risorse petrolifere.

Ne seguirono il pauroso tracollo della produttività, l’impennata dei costi di produzione e lo spreco di centinaia di miliardi di dollari di ricavi. La corruzione è così radicata a Caracas, che ormai neppure alleati come Russia e Cina prestano più denaro al regime di Nicolas Maduro, successore di Chavez dal 2013. E così, da paese con le maggiori riserve di petrolio al mondo, il Venezuela si ritrova da anni a secco di carburante e senza denaro per ricavarlo.

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Giuseppe Timpone

In InvestireOggi.it dal 2011 cura le sezioni Economia e Obbligazioni. Laureato in Economia Politica, parla fluentemente tedesco, inglese e francese, con evidenti vantaggi per l'accesso alle fonti di stampa estera in modo veloce e diretto. Da sempre appassionato di economia, macroeconomia e finanza ha avviato da anni contatti per lo scambio di informazioni con economisti e traders in Italia e all’estero.
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