I Pir europei buona idea, ma chiamiamoli con il loro nome: restrizioni ai movimenti dei capitali

L'idea dei Pir europei può essere considerata una soluzione concreta a un problema reale, a patto di essere chiari sul suo reale significato.
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Pir europei
Pir europei © Licenza Creative Commons

La Commissione europea vuole mobilitare almeno grossa parte dei 10.000 miliardi di euro parcheggiati sui conti correnti nell’Unione Europea e che ammontano al 70% dei risparmi delle famiglie complessivi. Troppo pochi gli investimenti, specie confrontando i dati con gli Stati Uniti. Una concausa della relativa bassa crescita del nostro continente. Tra le soluzioni proposte in questi giorni ve n’è una che ci riguarda molto da vicino come Italia per le ragioni che vedremo. Trattasi dei Piani individuali di risparmio o Pir europei.

Pir europei contro sotto-investimenti

L’idea è stata lanciata da Arel Single Market Lab, un think tank italiano, in collaborazione con Jacques Delors Center di Berlino, Jacques Delors Institut di Parigi e Ie Global Policy Center di Madrid. La premessa è che ogni anno defluiscono dall’Unione Europea verso gli Stati Uniti 300 miliardi di euro.

Denaro investito in asset finanziari americani, anziché europei. Di fatto, noi risparmiatori europei siamo tra i principali responsabili della maggiore crescita economica americana.

Troppi risparmi in fuga dall’Europa

Lo stesso Mario Draghi, intervenendo questa settimana al Parlamento italiano per aggiornare il suo Rapporto sulla competitività, ha citato il dato dei “500 miliardi di euro” di risparmi finiti fuori dall’UE nel 2024. In cosa consisterebbero i Pir europei? Similmente all’iniziativa italiana risalente al decennio passato, si tratterebbe di incentivare fiscalmente gli investimenti in asset finanziari emessi nell’UE. A patto che questi vengano mantenuti in portafoglio per un determinato periodo di tempo.

In questo modo, le società europee disporrebbero di maggiori risorse per finanziare i loro programmi di investimento. Avrebbero modo di ricorrere più facilmente sia al capitale di rischio che al debito.

Ciò avrebbe effetti positivi non soltanto sui costi di ri-finanziamento, ma anche sulle stesse valutazioni in borsa e sull’economia europea nel suo complesso. D’altronde, le borse europee quotano a scontano rispetto alla borsa americana. Parte di questo deprezzamento consegue alla carenza di investimenti.

Cosa sono i Pir italiani

I Pir europei trovano ispirazione nei Pir italiani, come dicevamo. Da anni è possibile investire in questo strumento nel nostro Paese, evitando l’imposizione fiscale. Come? Tenendo in portafoglio per almeno 5 anni e nei limiti di 30.000 euro all’anno di investimenti fino a un ammontare complessivo di 150.000 euro. Gli investimenti devono avere ad oggetto azioni e obbligazioni emesse da società italiane o europee con sede stabile sul territorio nazionale per il 70%. Di questo 70%, il 30% deve essere investito in strumenti emessi da società non appartenenti all’indice FTSE MIB.

Dopo un iniziale successo, i Pir italiani non si sono rivelati attrattivi. Il principale limite è dettato dalla scarsa liquidità degli strumenti sottostanti. Se già le aziende quotate nell’FTSE MIB sono relativamente di piccole dimensioni nel confronto internazionale, immaginate quelle appartenenti a indici minori. Nel caso dei Pir europei questo limite verrebbe parzialmente meno, pur essendo persino le aziende quotate in Europa mediamente più piccole delle concorrenti americane.

Aziende europee più piccole

La proposta in sé può servire a trattenere una maggiore fetta dei risparmi in Europa, ma il successo non sembra garantito.

Chi investe a Wall Street, non lo fa di solito per ragioni di convenienza fiscale. Lo fa per approfittare di un mercato percepito più dinamico, liquido e alla lunga sempre in crescita. Il ragionamento riguarda gli investitori di ogni angolo del mondo. Di fatto si è innescato un circolo virtuoso per la finanza yankee, che cresce grazie alla fiducia ricevuta e che attira sempre maggiore fiducia grazie alla crescita.

Disponendo di abbondanti capitali, i colossi quotati alla borsa americana riescono a ingigantirsi ulteriormente con investimenti massicci e travolgendo la concorrenza globale. E’ il caso della Big Tech, ma non solo. I Pir europei frenerebbero questa nostra tendenza suicida? Singolarmente presi, probabile che serviranno a poco. Se le aziende europee ispirano poca fiducia agli stessi investitori domestici, lo si deve principalmente al fatto che, a differenza delle concorrenti americane, dispongano di un mercato di sbocco generalmente molto più modesto. Una compagnia elettrica tedesca stipula contratti essenzialmente in Germania, così come una italiana in Italia e così via. In sostanza, partono svantaggiate.

Pir europei da soli non bastano

Ha ragione Draghi ad osservare che non riusciamo neanche ad avere un vero mercato unico per merci e servizi, ancor prima che per i capitali. Esistono barriere normative, regolamentari, finanche linguistiche, visibili o meno, che impediscono all’UE di essere un mercato comparabile agli Stati Uniti. I Pir europei poco potrebbero in tal senso per rinvigorire la fiducia dei risparmiatori continentali. Sarebbe come pensare di costruire una casa partendo dal tetto. Mancano le fondamenta. Tra l’altro, la proposta tradisce un pensiero sempre più mal celato e di cui non si parla mai apertamente a Bruxelles: la fine della globalizzazione commerciale e finanziaria.

Il paradigma degli ultimi 30 anni è stata la libera circolazione di merci, servizi, capitali e finanche persone. Chiunque ha avuto grosso modo la possibilità di investire dove meglio credeva e in base solamente al proprio tornaconto. Ragionamenti legati all’opportunità di premiare asset domestici sono stati (giustamente) scartati come retaggio di un passato ormai alle spalle. L’allocazione del capitale è efficiente quando non ci sono barriere di alcun tipo a restringerne i movimenti.

I Pir europei andrebbero contro questo principio. Non già perché obbligherebbero nessuno a investire nell’UE, quanto per il relativo svantaggio prospettato per chi investisse all’infuori di essa. Inutile scandalizzarsi in tempi di “reshoring” e dazi: il futuro sarà meno global sugli stessi mercati di come lo abbiamo conosciuto finora.

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Giuseppe Timpone

In InvestireOggi.it dal 2011 cura le sezioni Economia e Obbligazioni. Laureato in Economia Politica, parla fluentemente tedesco, inglese e francese, con evidenti vantaggi per l'accesso alle fonti di stampa estera in modo veloce e diretto. Da sempre appassionato di economia, macroeconomia e finanza ha avviato da anni contatti per lo scambio di informazioni con economisti e traders in Italia e all’estero.
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