In questi giorni, Moreno Morello di Striscia La Notizia sta scoperchiando un fenomeno che potrebbe essere molto diffuso nel mondo del calcio e di cui, tuttavia, si parla poco tra la grande stampa. Sono le cosiddette plusvalenze, espressione con cui ogni tifoso che si rispetti ha a che fare nel corso delle intense settimane di calciomercato che riguardino la propria squadra del cuore. Cosa s’intende per plusvalenza? E’ quel margine di profitto che una società, sportiva o meno, realizza con la cessione di un asset al prezzo superiore del valore di carico a bilancio.
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Secondo Calciomercato.com, la Procura Generale della FIGC ha aperto un’inchiesta sul gioco delle plusvalenze, che in alcuni casi sarebbero “fake”, ovvero destituite di un loro valore effettivo. Lo scoop di Striscia sta riguardando, nello specifico, alcune cessioni sospette del Pescara, anche se il suo presidente Daniele Sebastiani rigetta ogni accusa e sostiene di non avere mai barato per sistemare i bilanci del club biancoazzurro. Ecco di cosa stiamo parlando. Una società A cede a un’altra società B un giocatore a un prezzo pattuito volutamente ben al di sopra del suo reale valore di mercato. Ora, perché la società B dovrebbe accettare di strapagare un giocatore X che sa di valere molto meno? Semplice, perché a sua volta cederà alla società A un altro giocatore Y a un prezzo del tutto simile a quello di acquisto di X, dando vita a plusvalenze incrociate.
La logica dietro alla plusvalenze incrociate
Qualcuno potrebbe eccepire che un simile schema non avrebbe senso. In realtà, non sarebbe così. Sul piano contabile, le plusvalenze vanno iscritte interamente nello stesso esercizio in cui sono state realizzate, mentre il costo si spalma per il numero di anni di durata del del contratto. Se il calciatore X è stato ceduto a gennaio di quest’anno per 10 milioni e la società A lo aveva acquistato sostanzialmente a zero, venendo ad esempio dalle sue giovanili, nell’esercizio 2017/2018 dovrà iscrivere una plusvalenza pari allo stesso ammontare, mentre B che l’ha comprato deve registrare un costo pari a 2,5 milioni, presumendo che abbia siglato con X un contratto di 4 anni (10 mln : 4). Per quanto detto sopra, anche B venderà ad A un giocatore di 10 milioni, realizzando una plusvalenza della stessa entità (supponendo un costo nullo di acquisto), mentre A dovrà iscrivere nello stesso anno un costo di 2,5 milioni (sempre nel caso di un contratto quadriennale).
Al termine del primo anno, le due società maturano ciascuna un attivo di bilancio di 7,5 milioni, frutto della plusvalenza di 10 milioni, alla quale va sottratto il costo pro-quota dell’acquisto. Al termine del secondo, invece, entrambe dall’operazione avranno ottenuto un costo di 2,5 milioni, così come al terzo e, infine, al quarto anno. Nel lungo periodo, l’operazione sarà stata nulla sul piano contabile (i 7,5 milioni di attivo del primo anno saranno stati compensati dai 7,5 milioni di costi cumulati nelle successive tre stagioni), ma nel breve periodo, le società che hanno aderito a questo schema avranno “gonfiato” i loro bilanci. Dunque, il gioco delle plusvalenze incrociate serve forse a prendere tempo, specie se la società dovesse navigare in cattive acque o magari ha difficoltà a rispettare i paletti del cosiddetto “fairplay” finanziario, che impongono tra l’altro conti tendenzialmente in equilibrio.
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Cosa accade ai giocatori ceduti con plusvalenze gonfiate
La giustizia sportiva non punisce questo tipo di comportamenti, anche perché non sembra che abbiano ripercussioni dirette sull’andamento dei campionati. In realtà, questo sistema mieterebbe vittime proprio tra i calciatori oggetto delle cessioni. Vediamo perché. Se una società strapaga un acquisto, sapendo che vale solo una frazione di quanto speso, non avrà alcun interesse a farlo giocare da titolare. Lo riporrà in panchina o, ancora meglio, lo presterà a un’altra squadra, lucrandoci qualche spicciolo. Direte: qual è il problema? In effetti, se il giocatore vale poco, sarà fatto giocare per quel poco che vale. Il punto è che per questioni contabili, resterà vincolato fino alla scadenza del contratto, altrimenti la sua cessione anticipata esiterebbe una minusvalenza, dato che una terza squadra non acquisterebbe mai il giocatore a un prezzo di cartellino pari al suo valore residuale gonfiato. E una cessione sottocosto annullerebbe i benefici dello schema di cui sopra, anzi la trasformerebbe in una perdita netta.
Dunque, un giocatore “vittima” di plusvalenze fasulle dovrebbe accontentarsi o di restare in prestito in club di categorie inferiori (anche in C o D), oppure di fare solo panchina, non avendo così nemmeno modo eventualmente di crescere professionalmente e tentare di valere di più. Sgradevole sul piano umano, anche perché tende a riguardare i ragazzi delle giovanili, ovvero dal valore di carico nullo a bilancio, e chissà che questo fenomeno non infranga un qualche codicillo anche sul piano normativo, magari contrastando con il principio generale della buona fede in sede contrattuale. Suggerimento ai media: se volete capire quando una plusvalenza sia stata gonfiata, confrontate sempre il prezzo di cartellino con lo stipendio stagionale di un giocatore.
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