L’ex premier Mario Draghi definì il giorno in cui ottenne l’anticipo della prima rata del PNRR “dell’orgoglio nazionale”. Fummo facili profeti nell’affermare che sarebbe stato del contrario. Il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza si è inceppato e non da ora, bensì da un anno a questa parte. Non a caso, sempre Draghi si mostrò deluso e frustrato con i suoi ministri “tecnici”, accusati a porte chiuse di procedere lentamente nelle riforme necessarie per incassare le rate dell’Unione Europea.
Come funziona il PNRR
Il PNRR fu varato in piena pandemia nell’estate del 2020 dalla Commissione europea per rilanciare l’economia continentale e, in particolare, la parte più fragile. L’Italia fu la principale beneficiaria del piano da 750 miliardi di euro, suddiviso in 390 miliardi di sovvenzioni e 360 miliardi di prestiti. Il nostro Paese ottenne, infatti, 121 miliardi di prestiti e 70 miliardi di sovvenzioni. Questi ultimi sono aiuti a fondo perduto, mentre i primi vanno restituiti con gli interessi.
L’idea alla base era stata senza dubbio positiva: soldi agli stati per potenziare gli investimenti e aumentarne il potenziale di crescita. Le modalità di esecuzione apparvero sin dall’inizio insostenibili. L’Italia soltanto dovrà raggiungere circa mille tra “traguardi” e “obiettivi” nel periodo 2021-2026. I primi hanno natura qualitativa, i secondi quantitativa. Ciascuna rata è erogata dietro il raggiungimento di tutti i traguardi e gli obiettivi fissati per il periodo. E parliamo di decine, se non centinaia di leggi, decreti attuativi, bandi di concorso indetti e progetti presentati. Tutto in pochissimi mesi.
La nostra burocrazia non consente di sostenere simili ritmi. Capita già che i Comuni italiani non facciano neppure in tempo ad apprendere di un fondo per questo o quell’investimento, che già i termini per aderire ai progetti sono scaduti. Non si tratta solo di inefficienza. Gli enti locali non dispongono in molti casi di risorse umane specializzate allo scopo.
Legislazione italiana commissariata per anni
La rata di dicembre non è stata ancora versata e per la seconda volta Bruxelles ha rinviato di un mese l’erogazione. Motivo? Non sono stati raggiunti tutti i traguardi e gli obiettivi fissati. Il punto è che il PNRR non è come ce lo immaginiamo. Le misure richieste sono numerosissime, puntuali e invasive della nostra legislazione. Per farvi un esempio, riguardano le concessioni balneari, i saldi di fine stagione del commercio al dettaglio e robe simili. In pratica, la Commissione ha inteso per questa via ipotecare la vita legislativa dei paesi beneficiari. Un commissariamento a tutti gli effetti. In cambio di centinaia di miliardi, ne varrebbe la pena.
Peccato che nessuno ci stia regalando nulla. Come detto, i 121 miliardi di prestiti andranno restituiti. Lo dice il termine stesso che si tratta di un finanziamento. E le sovvenzioni? I 70 miliardi fanno parte di un pacchetto di 390 miliardi destinato a tutti gli stati comunitari, i quali saranno chiamati a finanziare le erogazioni in ragione del loro peso economico. L’Italia dovrà versare complessivamente più di 45 miliardi. Al netto, quindi, nel periodo 2021-2026 otterremmo non più di 25 miliardi col PNRR. E stando ai numeri degli anni passati, questa cifra sarà tra l’altro più che compensata dai contributi netti che annualmente versiamo all’Unione Europea per finanziarne il bilancio.
Rischio beffa per l’Italia
In altre parole, il PNRR è una mezza presa in giro.
Restano alcuni punti positivi del PNRR. Il primo è che sono soldi che potremmo spendere perlopiù a tassi d’interesse inferiori a quelli che spunteremmo sui mercati indebitandoci direttamente. Il secondo riguarda il senso di sicurezza che gli stessi mercati nutrono verso l’Italia, intravedendo nel piano una sorta di tutela delle istituzioni comunitarie a beneficio dei nostri conti pubblici. Un flop del PNRR sarebbe visto assai negativamente da chi investe. Confermerebbe l’incapacità dell’Italia di sfruttare persino le occasioni ghiotte per riformarsi e rilanciare la propria economia. Allo stesso tempo, sarebbe la fine dell’auspicio su una maggiore condivisione dei debiti attraverso il varo di programmi comuni d’investimento. Al contrario, i “falchi” del Nord Europa alzerebbero la testa per impedire in futuro l’adozione di misure simili.