Sono trascorsi nove anni dall’inizio della guerra civile in Siria, che avrebbe provocato fino a 700.000 morti. E tra chi è rimasto vivo, il tasso di povertà sfiorerebbe il 90%. La vittoria sull’ISIS sembrava aver sottratto il presidente Bashar al-Assad al rischio di deposizione, ma il dittatore non aveva fatto i conti con l’attuale crisi dell’economia, un po’ conseguenza di eventi sfuggenti al suo controllo, tanto da essere stato costretto nei giorni scorsi a licenziare il premier Imad Khamis.
In previsione dell’embargo, nelle ultime settimane la lira siriana è letteralmente collassata, segnando sul mercato nero circa -70% contro il dollaro e scambiando a 3.500, nel corso della settimana scorsa, quando ne bastavano sui 1.345 in aprile e meno di 1.000 alla fine dello scorso anno. Dai minimi toccati nei giorni passati, sembrerebbe che il cambio si sia un po’ ripreso, attestandosi in area 2.600 contro il dollaro, ma falcidiando in ogni caso i redditi già provati da lunghi anni di guerra e distruzione. Si consideri, poi, che al cambio ufficiale un dollaro varrebbe ancora solamente 526 lire.
La situazione è diventata così esplosiva, che nel sud della Siria si sono registrate proteste contro il presidente, il cui nome è stato maledetto dalla folla come non accadeva ormai da anni. E nel nord, dove stanziano le truppe di Ankara, la lira turca ha sostituito la valuta locale nella fissazione dei prezzi. Ad Idlib, il Governo di Salvezza ha imposto un tetto di 2 lire turche per ogni pagnotta di pane e qualche stazione di servizio ha iniziato ufficialmente a indicare i prezzi nella valuta turca, il segno evidente che ormai si ragioni agganciandosi alle valute straniere e che la Turchia stia sfruttando al situazione per imporre il controllo su parti del territorio siriano.
Perché i bond della Turchia recuperano, malgrado caos in Siria e Coronavirus
Siria di Assad isolata
Un paradosso, se si considera che la valuta emergente sia tra le più instabili e rischiose da anni, tant’è che anche in questo 2020 ha perso un altro 13% contro il dollaro. Sarebbe un po’ come immaginare che l’Italia garantisse per i debiti di stati terzi. Eppure, sta accadendo per la disperazione che regna nella Siria martoriata. Da anni, le famiglie più facoltose portavano in salvo i loro risparmi in Libano, depositandoli nelle banche a tassi d’interesse elevati. Ma dall’autunno scorso, il sistema bancario libanese è imploso sotto i colpi di una crisi politica inattesa, che ha fatto saltare in aria la già precaria finanza domestica. I conti sono stati bloccati e anche per questo sono esplose le difficoltà siriane.
La lira precipita ed esplode la rabbia contro la banca centrale “ladra”
Tra l’altro, l’obiettivo reale delle ultime sanzioni USA consiste nel recidere ogni forma di controllo dell’Iran su quello che nei decenni è diventato un suo protettorato. Travolta dalla crisi del petrolio e, ancora prima, dall’embargo americano, anche Teheran naviga in pessime acque e tutto può permettersi, fuorché di aiutare l’amico di Damasco. Ciliegina sulla torta: il miliardario e cugino del presidente, tale Rami Makhlouf, l’uomo più ricco della Siria, ha rotto con Assad, forse nel tentativo di sottrarsi alle sanzioni, postando a maggio un video in cui denunciava pressioni del governo per cedere i suoi profitti con la minaccia degli arresti. Per il regime alawita sarebbe venuta meno una fonte importante di finanziamento.
Il puzzle che si sta componendo appare molto fosco per Assad. Il Libano degli Hezbollah filo-iraniani non riesce ad accedere al prestito da 10 miliardi del Fondo Monetario Internazionale, a causa dell’opposizione delle milizie alle politiche di austerità fiscale e alle riforme chieste in cambio dall’istituto. L’Iran è economicamente in ginocchio da anni e con l’uccisione del generale Qassem Soleimani ha subito a gennaio un duro colpo anche sul piano geopolitico e militare. La Turchia preme da nord e, a quanto pare, senza una concreta opposizione dell’America. Rimane schierata con il regime la Russia di Vladimir Putin, che in questo frangente di crisi provocata dall’impatto del Coronavirus sul mercato petrolifero ha ben altro a cui pensare.