E’ una fase molto negativa sui mercati finanziari per diverse materie prime. Le quotazioni dei metalli preziosi e industriali precipitano, così come quelle del legname. Il prezzo dell’oro oggi si aggira sui 1.785 dollari l’oncia, ai minimi da un mese e mezzo. Rispetto ai massimi toccati a maggio, quando sfiorò i 1.910 dollari, perde il 6,5%. Male anche l’argento, che scende in area 26 dollari e scivola dell’8% dai massimi del mese scorso. A doppia cifra il crollo del platino, oggi intorno ai 1.075 dollari per oncia e a -16% dai massimi di maggio.
Anche i metalli industriali stanno facendo male. In generale, il calo è del 7,5% dall’apice di appena 5 settimane fa. Il rame registra un tonfo del 12%. E il legname, che aveva toccato il suo record storico nel mese di maggio, crolla di un impressionante 46% da allora. Che cosa sta succedendo di preciso? In settimana, la riunione del FOMC, il braccio di politica monetaria della Federal Reserve, ha acuito una tendenza già in atto da settimane. Il board ha mantenuto tassi e acquisti di bond invariati, ma ha prospettato un avvio della stretta più vicino nel tempo di quanto previsto sino ad allora.
Il prezzo dell’oro ne è risultato il più colpito da classico bene rifugio. Essendo un asset privo di cedola che si acquista nelle fasi di tensione e di rialzo dell’inflazione, risente negativamente della prospettiva di un aumento dei rendimenti obbligazionari e di contrasto dell’inflazione da parte della più potente banca centrale al mondo. Ma l’andamento molto negativo anche di altre materie prime svela cosa vi sia stato dietro il loro boom negli ultimi mesi: la speculazione finanziaria.
Prezzo dell’oro e il fattore dollaro
I mercati hanno scommesso al rialzo sulle “commodities” per posizionarsi in vista della ripresa globale, già in corso. Inoltre, hanno impiegato l’eccesso di liquidità a disposizione in questi asset, non ravvedendo grossi margini di guadagno sui più tradizionali bond e azioni.
Il petrolio continua a sostare sui massimi da fine 2019, cioè poco sotto i 73 dollari per ogni barile di Brent. Ciò è dovuto essenzialmente alla peculiare condizione di questo mercato, dove l’offerta resta limitata per via dei tagli effettuati e parzialmente mantenuti dall’OPEC. Al contrario, le riaperture delle attività 15 mesi di “lockdown” stanno spingendo la domanda. E contrariamente all’ultimo decennio, lo “shale” USA non sta mostrando segnali di ripresa. Infine, su tutti aleggia la ripresa di vigore del dollaro, valuta in cui tutte queste materie prime si scambiano e che si è rafforzata ai massimi da oltre due mesi. Dai minimi di fine maggio, trainato proprio dai segnali meno accomodanti della FED, guadagna in media oltre il 2,5% contro le altre valute e rende più care le materie prime per gli acquirenti non americani.