Privatizzazioni, serve nuova stagione senza gli errori degli anni Novanta: ecco i possibili incassi per lo stato

Nel governo si apre il capitolo privatizzazioni, che divide i partiti della maggioranza. Pesa il ricordo degli errori negli anni Novanta.
1 anno fa
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Governo diviso sulle privatizzazioni
Governo diviso sulle privatizzazioni © Licenza Creative Commons

Al Meeting di Rimini è bastata una battuta del vice-premier Antonio Tajani per rilanciare il capitolo privatizzazioni. L’altro numero due del governo Meloni, Matteo Salvini, ha subito preso le distanze. Un tema spinoso, ma che l’esecutivo deve prima o poi affrontare. Il segretario di Forza Italia ha lanciato l’ipotesi di vendere le infrastrutture portuali per aumentare l’efficienza e – sono parole sue – “per fare cassa”. Espressione brutta, ma che svela la necessità di abbattere le emissioni di debito pubblico ricorrendo proprio alla cessione degli asset in capo allo stato.

Errori anni Novanta pesano

Le opposizioni sono insorte e la Lega stessa per bocca di Salvini ha negato che faccia parte del programma di governo. Lo stesso Tajani del resto aveva notato che la sua fosse una proposta “politica”, cioè all’infuori degli stretti confini degli impegni della maggioranza. In teoria, il centro-destra dovrebbe trovare congeniale il tema delle privatizzazioni. In Italia, tuttavia, è accaduto storicamente il contrario. Queste avvennero quasi del tutto negli anni Novanta sotto i governi di centro-sinistra, mentre il quattro volte premier Silvio Berlusconi non cedette sostanzialmente nulla al mercato, malgrado la retorica liberale usata nelle molteplici campagne elettorali.

Il punto è che le privatizzazioni in Italia non sono state un successo, per cui non possono essere rivendicate con orgoglio da chi le varò. Con Romano Prodi premier e Carlo Azeglio Ciampi ministro dell’Economia, tante società dello stato furono s-vendute senza criterio per fare cassa. Monopoli pubblici divennero privati. Lo stesso accadde quando al governo arrivò Massimo D’Alema. I casi più impietosi furono Tim e Autostrade. Infrastrutture passate in mani private per noccioline, servizi carenti e prezzi elevati per gli utenti, profitti per i neo-proprietari e perdita di controllo di asset strategici per lo stato italiano.

Cessioni asset per potenziare crescita economica

L’Italia è rimasta così scottata da quegli anni, che oggi parlare di privatizzazioni è molto più impopolare a destra che a sinistra.

Dopo oltre un quarto di secolo, ad esempio, il governo sta faticosamente cercando di riappropriarsi del controllo della rete telefonica. L’unica cessione di rilievo avvenuta sotto il centro-destra fu nel 2009 e riguardò la vecchia Alitalia (“capitani coraggiosi”). Sappiamo tutti com’è andata a finire.

Le privatizzazioni, però, all’economia italiana servono. Anzitutto, per incassare ulteriori risorse rispetto a quelle ordinarie del bilancio statale. Ma questo è forse l’aspetto più marginale. Come abbiamo anticipato, i costi rischiano nel lungo periodo di risultare superiori ai benefici se le operazioni di vendita degli asset pubblici avvengono senza bussola. In realtà, abbiamo bisogno di potenziare l’efficienza di tante imprese ad oggi controllate dallo stato, ergo dalla politica. Ciò si tradurrebbe in maggiori investimenti, servizi qualitativamente migliori e prezzi più bassi, a patto di aprire contestualmente alla concorrenza. Una spinta alla crescita, insomma.

Privatizzazioni società quotate, possibili incassi

Sono numerose le partecipazioni del Tesoro in società oggi quotate in borsa. C’è il 23,59% in Enel, il 4,34% in Eni (oltre al 25,6% di CDP), il 29,26% in Poste (più il 35% di CDP), il 64,23% in MPS, il 30,20% in Leonardo, il 53,28% in Enav, ecc. Immaginiamo che il Tesoro vari privatizzazioni totali di questi asset appena citati. Quanto incasserebbe? Ai prezzi attuali di mercato, più di 26 miliardi di euro. Di questi, quasi 15 arriverebbero solamente da Enel. E stiamo escludendo le quote di CDP dal conteggio. Un bel gruzzolo per un governo a caccia di risorse per la prossima manovra di bilancio.

Ma non facciamoci impressionare dalle cifre. In primis, perché si tratta di entrate una tantum, che non potranno finanziare voci di spesa o tagli delle imposte strutturali. Per capirci, se il governo Meloni vorrà confermare il taglio del cuneo fiscale, avrà bisogno di 10 miliardi di euro ogni anno.

I 26 miliardi e rotti che arriverebbero da queste privatizzazioni entrerebbero in cassa solamente per una volta. Allo stesso tempo, poi, ridurrebbero le entrate per lo stato in qualità di dividendi percepiti come azionista. Il saldo netto sarebbe già nell’immediato inferiore a quanto immaginiamo.

Il ministro dell’Economia, Giancarlo Giorgetti, non vuole rinunciare al controllo delle aziende strategiche. Pertanto, le privatizzazioni riguarderebbero partecipazioni marginali. Probabile che la via di uscita per accontentare tutti nella maggioranza sia più tecnica che di sostanza: quote del Tesoro cedute a CDP, cioè una sua stessa partecipata. Lo stato otterrebbe liquidità, ma non perderebbe il controllo delle società, dato che la CDP è un ente pubblico. Ciò che ufficialmente uscirebbe dalla porta, immediatamente rientrerebbe dalla finestra. Chiamatele, se volete, privatizzazioni all’italiana.

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Giuseppe Timpone

In InvestireOggi.it dal 2011 cura le sezioni Economia e Obbligazioni. Laureato in Economia Politica, parla fluentemente tedesco, inglese e francese, con evidenti vantaggi per l'accesso alle fonti di stampa estera in modo veloce e diretto. Da sempre appassionato di economia, macroeconomia e finanza ha avviato da anni contatti per lo scambio di informazioni con economisti e traders in Italia e all’estero.
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