Il protezionismo non funzionerà, il peccato dell’America sono i debiti di guerra

I debiti di guerra sono il vero peccato originale degli USA, che già hanno fallito con il protezionismo di un secolo fa. Ecco i numeri.
3 settimane fa
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Debiti di guerra e protezionismo negli USA
Debiti di guerra e protezionismo negli USA © Licenza Creative Commons

I mercati ballano, ma nessuno si diverte. I dazi annunciati dall’amministrazione Trump hanno mandato alle ortiche 30 anni di globalizzazione e creato incertezze sul futuro dell’economia mondiale. Non si tratta semplicemente di temere l’arrivo di una crisi, quanto di capire come funzionerà il mondo e sulla base di quali regole. C’è la riscoperta del protezionismo da parte della superpotenza che del libero mercato ne aveva fatto un vessillo della sua storia recente, fino ad oggi per l’appunto. Dobbiamo fare una premessa per sgombrare il campo da ogni ipocrisia: in questo momento non si sta combattendo una battaglia ideologica tra i fautori del commercio libero e coloro che sostengono l’autarchia produttiva quale modello di economia.

La battaglia è per la difesa dello status quo da parte delle economie che hanno prosperato grazie alla crescita degli interscambi e un’America che se ne ritiene vittima. A torto o a ragione.

Protezionismo soluzione facile da destra a sinistra

Il protezionismo è una ricetta applicata trasversalmente dai governi per difende le produzioni nazionali. Sul piano teorico appartiene alla sinistra, tant’è che nei decenni passati erano stati i movimenti progressisti a protestare contro la globalizzazione. Ricordate Porto Alegre, gli scontri ai G8 e le invettive contro la rimozione dei dazi? Arrivano pressappoco dagli stessi ambienti che oggi accusano Trump di fare quello che avevano propinato per molto tempo. Storicamente, anche la destra ha ceduto alla tentazione dei dazi. E una volta lo fece in maniera plateale con risultati fallimentari.

Caso Grande Depressione

Era il 1929 e il crollo di Wall Street diede iniziò a quella che sarebbe stata definita Grande Depressione.

A scuola s’insegna che la colpa di tale crisi fu l’inerzia del presidente Herbert Hoover, un repubblicano convinto sostenitore del libero mercato. Egli non sarebbe intervenuto a sostegno dei redditi e avrebbe aggravato la crisi. La verità è che Hoover fu responsabile dell’aggravamento, ma per la ragione opposta. Due gli atti che segnarono negativamente il mandato: convocò gli industriali e limitò loro sia i licenziamenti che i tagli agli stipendi. Di fatto, impedì ai prezzi di abbassarsi, provocando la caduta del potere di acquisto prima e il dilagare della disoccupazione subito dopo con il conseguente collasso del Pil e l’attecchimento della deflazione.

Nel 1930 entrò in vigore lo Smooth-Hawley Tariff Act, un piano di dazi sulle importazioni dall’estero. Con questo atto di protezionismo economico Hoover intendeva sostenere le esportazioni e ridurre le importazioni, aumentando la produzione domestica e i posti di lavoro. Ebbene, tra il 1929 e il 1933 le esportazioni di merci in valore crollarono del 61%, passando da 5,4 a 2,1 miliardi di dollari. Rispetto al Pil scesero dal 5,2% al 3,7%. Le importazioni crollarono anch’esse da 4,4 a 1,5 miliardi, cioè dal 4,2% al 2,6%. L’America passa da un avanzo commerciale netto complessivo (servizi inclusi) dello 0,7% a un deficit del 4,6% del Pil. Quest’ultimo nel frattempo era crollato, poi, di oltre il 26% in termini reali.

Un po’ come la Grecia nel decennio passato. Disastro assoluto.

Lezione di Reagan dimenticata

In altre parole, il protezionismo si risolse con un buco nell’acqua. Peggio, contribuì a trasformare una crisi forse gestibile in un’ecatombe dell’economia mondiale. La lezione non è stata evidentemente imparata a quasi 100 anni di distanza. I dazi sono facili da introdurre e da vendere all’elettorato. Come disse Ronald Reagan, padre della destra americana liberista, all’inizio appaiono un atto patriottico, ma alla lunga si rivelano il contrario. Le imprese smettono di farsi concorrenza, aumentano i costi di produzione, i prezzi al consumo salgono e tutti stanno peggio di prima.

Abbandono di Bretton Woods peccato originale

L’America ha un grave squilibrio commerciale, non è un’invenzione del presidente Donald Trump. Esporta poco e importa troppo. E’ un problema? Non lo sarebbe in apparenza, visto che l’economia americana ha continuato a crescere ben oltre i ritmi europei e oggi versa in piena occupazione. Dietro ai dati, però, si cela una realtà tutt’altro che brillante. Il Pil sale a colpi di debiti, sia pubblico che privato. Questo è all’origine dello squilibrio: gli americani consumano troppo, perché s’indebitano sia al livello familiare che tramite il bilancio pubblico.

Questo problema sorgeva negli anni Settanta. Guardate il grafico di sotto, in cui sono riportati i surplus o deficit commerciali americani sin dal 1929. Fino a metà di quel decennio le cose stavano messe bene per la bilancia commerciale, in sostanziale perenne equilibrio. Dopodiché una caduta quasi improvvisa, per quanto non casuale. Nel 1971 l’amministrazione Nixon aveva annunciato l’abbandono del sistema di Bretton Woods, che garantiva la convertibilità del dollaro in oro e teneva i cambi di 44 stati ancorati tra loro. In reazione a tale evento il dollaro inizialmente perse il 20% contro le altre valute principali, salvo impennarsi successivamente del 50%.

Esportazioni nette USA
Esportazioni nette USA © Licenza Creative Commons

Debiti per guerre fonte di squilibrio

L’instabilità valutaria globale seguita alla rottura degli accordi del 1944 riduceva la competitività delle imprese americane, tant’è che nel 1985 si rese necessario l’Accordo di Plaza sotto Reagan per svalutare il dollaro.

Da allora e fino ad inizio anni Novanta il cambio perse in media un terzo del suo valore. E guarda caso, ciò portò a un temporaneo miglioramento dei saldi commerciali. Frutto solo di questo? No, perché nel frattempo gli USA chiudevano i bilanci in attivo. Senza deficit fiscali sparivano anche quelli commerciali (deficit gemelli).

E ora arriviamo al nocciolo della questione. Perché l’America rinunciò a Bretton Woods, che le aveva garantito crescita e stabilità finanziaria? Per le guerre che combatteva, ovvero per i debiti necessari a finanziarle. In un sistema monetario in cui non puoi battere moneta per fare deficit, hai le mani legate dalla quantità di oro che possiedi. L’America aveva necessità di fare debiti per combattere l’Unione Sovietica tramite le frequenti “proxy wars” di quegli anni, tra cui nel Vietnam. Il grafico di sotto spiega bene la situazione. Fintantoché resse il precedente ordine monetario, regnò la stabilità fiscale. Dopo fu un libera tutti. I debiti legati alle guerre sono aumentati e con gli anni Duemila sono letteralmente esplosi, calcolati in diverse migliaia di miliardi di dollari.

Esportazioni nette USA
Esportazioni nette USA © Licenza Creative Commons

Protezionismo risposta disperata?

Questa situazione porta gli americani a vivere sopra le loro possibilità. Non è neanche facile svalutare il dollaro, essendo la valuta di riserva mondiale e con gli altri ad anticiparti con tassi negativi e maxi-iniezioni di liquidità sui mercati. Ed ecco rispuntare la ricetta estrema e fallimentare del protezionismo, che mai ha portato a una qualche soluzione positiva. Ciò non significa che le mosse di Trump siano irrazionali, specie se puntano ad ottenere risultati sul piano negoziale che verosimilmente non arriverebbero mai senza la minaccia dei dazi. Resta il fatto che quando s’inizia una guerra commerciale, non è detto che si riesca anche a gestire e a fermarla. La globalizzazione per come l’abbiamo conosciuta è finita, perché sono venuti meno i suoi principali sostenitori sul piano ideologico.

giuseppe.timpone@investireoggi.it 

 

Giuseppe Timpone

In InvestireOggi.it dal 2011 cura le sezioni Economia e Obbligazioni. Laureato in Economia Politica, parla fluentemente tedesco, inglese e francese, con evidenti vantaggi per l'accesso alle fonti di stampa estera in modo veloce e diretto. Da sempre appassionato di economia, macroeconomia e finanza ha avviato da anni contatti per lo scambio di informazioni con economisti e traders in Italia e all’estero.
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