Manca una settimana all’avvio delle votazioni in Parlamento per eleggere il nuovo presidente della Repubblica. Ad oggi, il successore di Sergio Mattarella non ha un volto. Il centro-destra candida Silvio Berlusconi, mentre PD e Movimento 5 Stelle si oppongono senza, però, indicare un nome alternativo, sebbene dovrebbero spendersi a favore di Mario Draghi quale soluzione meno dolorosa per il prosieguo della legislatura. Nel caso in cui il Cavaliere ed ex premier non dovesse raccogliere i 505 voti necessari per essere eletto dalla quarta votazione in poi, con ogni probabilità il centro-destra opterebbe per un piano B.
Classe 1947, lombardo, è stato ministro del Tesoro in tutte le tre volte che Berlusconi è andato al governo, cioè nel 1994, nel 2001 fino al 2006 (con l’eccezione del periodo tra 2004 e 2005) e, infine, tra il 2008 e la fine del 2011. In tutto, otto anni a gestire i conti pubblici italiani. Di certo, si tratta di un alto profilo, di un uomo dalla caratura istituzionale e mai banale o sprovveduto.
Tuttavia, su Tremonti aleggiano due rischi: l’antipatia personale di Berlusconi, con cui pare non si senta dalla caduta del governo nel 2011; il suo proverbiale euro-scetticismo, ostentato negli ultimi anni e inviso di certo al centro-sinistra, così come all’establishment economico-finanziario italiano.
La fine del rapporto tra Tremonti e Berlusconi
Da cosa nasce la rottura dei rapporti con Berlusconi? Era la primavera del 2011. L’Italia iniziava ad avvertire sul serio i postumi della potente crisi finanziaria globale del 2008-’09. La Grecia era appena andata a gambe per aria, il premier Berlusconi era finito sotto inchiesta sul caso Ruby, i mercati erano nervosi e il centro-destra aveva perso le elezioni amministrative, tra l’altro cedendo Milano al centro-sinistra. L’allora premier Berlusconi si convinse che la causa della sua impopolarità fosse dovuta alla gestione austera delle finanze da parte di Tremonti.
Inviso alle cancellerie europee per i suoi guai giudiziari e l’immagine poco sobria, queste dichiarazioni non passarono inosservate. Gli investitori si convinsero che il nostro Paese avrebbe dilatato ulteriormente la spesa pubblica. Lo spread iniziò a salire di settimana in settimana e in estate era già esploso ai livelli di guardia. Fu in quel frangente che la BCE inviò all’Italia una famosa lettera per chiedere il varo di una cinquantina di riforme. Avrebbe dovuto rimanere segreta, ma a settembre la notizia divenne pubblica. Lo spread decollò definitivamente portando alle dimissioni il governo ai primi di novembre, seguite dall’insediamento del Prof Mario Monti a Palazzo Chigi.
Chi spifferò alla stampa della lettera? E per caso qualcuno dall’Italia ne fu, se non l’ispiratore, almeno un suggeritore? Berlusconi pensa da oltre un decennio che proprio Tremonti lo avrebbe “tradito” per non cedergli potere decisionale sulla gestione dei conti pubblici. Da lì la fine di un rapporto politico apparentemente solidissimo. Ma la caduta in disgrazia dell’ex ministro procedette di pari passo alla sparizione dai radar di Umberto Bossi, travolto dalle inchieste sui diamanti della Lega in Africa. Il “senatur” era stato suo sponsor, tant’è che la figura di Tremonti era considerata intoccabile per la sua capacità di unire istanze sia di Forza Italia prima e PDL dopo e della Lega bossiana.
Caccia ai voti in Parlamento
Una volta che le redini del Carroccio furono prese da Matteo Salvini e, soprattutto, che il centro-destra fu ricacciato all’opposizione, di Tremonti non si è sentito più parlare. Sarà anche per questo che l’uomo ha cercato in questi anni di sopravvivere politicamente ritagliandosi uno spazio intellettuale di critico dell’unione monetaria.
Da solo, poi, il centro-destra non avrebbe i voti sufficienti per eleggersi un presidente della Repubblica in proprio. Avrà bisogno almeno del sostegno dei renziani, così come di parte del Gruppo Misto, affollatissimo a questo giro per via dei numerosi espulsi e fuggiaschi dal Movimento 5 Stelle. Tremonti non gode probabilmente di appeal tra i primi, forse di più tra i secondi. Il suo nome, pur non ventilato ufficialmente, risulterebbero meno divisivo di quello dell’ex premier, per quanto sarebbe ugualmente considerato di parte. Le sue chance di vittoria dipenderanno essenzialmente dal tasso di convinzione del centro-destra nel portarne avanti la candidatura.