Sono gli ultimi giorni per il “quantitative easing”. L’ultimo board della BCE di giovedì scorso ne ha decretato la fine, sebbene sarebbe opportuno parlare più che altro di “sospensione”, dopo questo mese. Dal 2019, la BCE cesserà di acquistare assets nell’Eurozona, anche se proseguirà a reinvestire i proventi derivanti dalle scadenze dei titoli detenuti in portafoglio, stimate in 190 miliardi di euro per i prossimi 12 mesi. Il bilancio dell’istituto, quindi, dovrebbe rimanere immutato ancora per anni, anzi probabilmente continuerà ad espandersi, nel caso in cui si tenessero nuove aste T-Ltro con cui iniettare liquidità fresca alle banche dell’area e queste ultime decidessero di prendere a prestito più denaro di quello che dovranno restituire nei mesi successivi.
Sui mercati regna l’incertezza per il dopo QE, perché se c’è stato un effetto visibilmente benefico che il piano di acquisti di Mario Draghi ha mostrato, questo è consistito nell’azzeramento dei rendimenti versati dai governi sui bond di nuova emissione. L’Italia pagava, al netto delle tensioni sullo spread, qualcosa come il 4,5-5% per i suoi BTp decennali, ma dopo l’avvio del programma è arrivata a sborsare poco più dell’1% e persino negli ultimi mesi, con l’esplosione dei rendimenti per lo scontro tra Roma e Bruxelles sulla manovra di bilancio, non si è andati oltre il 3,7%.
Dunque, il QE ha ridotto di gran lunga il costo per onorare i debiti sovrani. L’Italia sta risparmiando la media di non meno di 15-20 miliardi all’anno. Denaro, che altrimenti sarebbe stato speso per gli interessi, mentre può essere impiegato per erogare beni e servizi e anche per contenere le nuove emissioni, ossia per tenere sotto controllo il deficit. Tuttavia, non era questo l’intento formale del piano, nato per contrastare gli effetti deflattivi in corso tra il 2014 e il 2015 e per ravvivare l’economia dell’Eurozona.
L’insuccesso del QE in cifre
L’inflazione quest’anno, stando alle ultime proiezioni della BCE, salirà alla media dell’1,8%, abbassandosi all’1,6% nel 2019 e per tendere nuovamente all’1,8% solo nel 2021. Poiché il target di Francoforte consiste in una crescita tendenziale dei prezzi nell’area “vicino, ma di poco inferiore” al 2%, diremmo che a malapena e dopo 5 anni abbondanti, l’istituto starebbe iniziando a centrarlo, salvo vederselo nuovamente sfuggire di mano. E se è pur vero che la crescita del pil nell’unione monetaria si sia attestata alla media del 2% nell’ultimo triennio, la decisa decelerazione in corso getta un’ombra lunga sulle prospettive imminenti.
L’esplosione delle tensioni politiche praticamente in tutti gli stati dell’area costituiscono il principale segnale che l’andamento dell’economia, anche sotto il QE, non avrebbe dato i frutti sperati. Per capire cosa non abbia funzionato, vi forniamo alcuni dati significativi. Alla fine del 2014, prima che la BCE lanciasse ufficialmente il piano di acquisti di assets senza precedenti per l’area, il suo bilancio si attestava sui 2.210 miliardi di euro. Il mese scorso, risultava lievitato a 4.650 miliardi. Dunque, è cresciuto in poco meno di 4 anni di circa 2.450 miliardi. Trattasi di liquidità netta iniettata nel sistema economico, principalmente attraverso le banche. In teoria, avrebbero dovuto stimolare all’incirca della stessa entità il credito al settore privato, ma così non è stato.
Poco prima del varo del QE, i prestiti a famiglie e imprese nell’Eurozona si attestavano sui 10.400 miliardi di euro; adesso, risultano saliti a quasi 11.100 miliardi, segnando una crescita di 700 miliardi, qualcosa come meno del 30% dell’espansione del bilancio BCE.
Quantitative easing, cosa succede all’Italia con il cambio dei pesi della BCE?
Prestiti di poco migliorati, manca la fiducia
In pratica, il sistema bancario ha approfittato del QE per abbellire i propri bilanci, migliorando il grado di liquidità, nonché per liberarsi degli assets a rischio, inclusi i titoli di stato di paesi come l’Italia. Solo per una minima parte ha aumentato i prestiti, per il resto ha preferito mantenere la liquidità eccedente i requisiti regolamentari, nonostante da 4 anni la BCE abbia imposto su di essa tassi negativi, ancora al -0,4%. In altre parole, sui 1.800 miliardi detenuti a Francoforte, su base annua le banche europee pagano all’istituto qualcosa come oltre 7 miliardi di euro, un costo da sostenere per evitare di prestare denaro a famiglie, imprese e le stesse altre banche. Un indice di grave sfiducia sia verso l’economia che nei confronti del sistema bancario nel suo complesso. Perché mai, altrimenti, una banca non dovrebbe impiegare tale denaro per prestarlo a tassi positivi? Con l’Euribor a 1 mese di poco superiore al -0,4%, converrebbe mediamente persino prestare a tassi negativi ad altre banche per pochi giorni o settimane, ma il fatto che questo continui ad accadere in misura marginale, implica due cose: che le banche non si fidino le une delle altre; che non abbiano nemmeno cosa farne di tutta questa liquidità, essendo i prestiti all’economia relativamente bassi.
In altre parole, servirebbero tassi ben più elevati per remunerare il rischio di credito, mentre con questi interessi, evidentemente il gioco non vale la candela; specie se si considera che nell’area esistono ancora 900 miliardi di crediti deteriorati o Npl da smaltire, circa il 4% del totale erogato, segno che i prestiti a famiglie e imprese siano abbastanza rischiosi, a fronte di un compenso insignificante, se si pensa che un mutuo a lungo termine in Italia continui ad essere prestato anche a meno del 2% con il tasso fisso. Ma se la BCE ha dovuto dar vita a una politica monetaria non ortodossa e profondamente divisiva – vedasi l’opposizione della Bundesbank – che senso ha avuto, se praticamente il 70% dei maggiori assets a bilancio è tornato indietro, pesando sui conti delle stesse banche che si sarebbero dovute soccorrere per salvare l’economia dell’Eurozona dal rischio di “credit crunch” e di deflazione?
Quantitative easing, Draghi non si fida dell’economia europea