Il dilemma è shakespeariano: “Euro o non Euro”? E se sarà “non Euro”, siamo davvero certi che per uscire dalla crisi sia sufficiente ripristinare le divise nazionali e spendere a deficit? I commentatori di scuola keynesiana, tra cui il Premio Nobel per l’economia Paul Krugman e gli esponenti della Modern Money Theory, sembrano non aver alcun dubbio a riguardo: la restaurazione della sovranità monetaria e la conseguente svalutazione fornirebbero ai Paesi periferici gli strumenti per tornare competitivi sui mercati internazionali e riavviare la crescita economica interna.
LE ECONOMIE PERIFERICHE DELL’EUROZONA INCIDONO PER IL 7% SUL PIL MONDIALE
L’assenza nella modernità di un precedente di un’unione economica e monetaria equiparabile all’Eurozona non facilita il compito di quantificare i costi e di un suo ipotetico ridimensionamento. Per estensione e complessità si è soliti portare come esempio la disintegrazione dell’area rublo e dell’Unione Sovietica. È bene puntualizzare, tuttavia, che il crack sovietico incise sul PIL globale “solamente” per il 2,5% mentre è molto probabile che l’uscita di uno o più Paesi dall’Eurozona rischi di destabilizzare maggiormente i mercati e le economie mondiali. Basti pensare, per esempio, che le economie dei Paesi periferici e dell’intera area Euro corrispondono rispettivamente al 7% e al 20% del PIL mondiale.
SVALUTARE PER MASCHERARE DEFICIT STRUTTURALI E SPESE PUBBLICHE FUORI CONTROLLO
Secondo Krugman et alteri, i Paesi periferici devono prendere a modello l’esempio argentino e rilanciare le proprie economie svalutando le redivive divise nazionali.
DALLA SVALUTAZIONE ALL’IPERINFLAZIONE IN UN PAESE “SPENDACCIONE”
Si provi a immaginare le dinamiche monetarie e fiscali di un Paese non virtuoso negli anni successivi all’uscita dall’Euro. In seguito alla riappropriazione della divisa nazionale, una prima svalutazione stimolerebbe la competitività dei prodotti e servizi domestici sui mercati internazionali contribuendo a un incremento del PIL e del gettito fiscale. Perché lo Stato è inefficiente e la pubblica amministrazione necessita di un sempre crescente fabbisogno, il gettito fiscale corrente non sarebbe, tuttavia, sufficiente a pareggiare le uscite previste per gli anni a venire. Le autorità nazionali ricorrerebbero, pertanto, a una nuova svalutazione per sostenere la competitività del settore privato sui mercati esteri, stimolare la crescita reale del PIL – ovvero al netto dell’inflazione – e quindi aumentare le entrate nelle casse dell’erario. Una tale politica renderebbe, tuttavia, molto più care le importazioni – e in modo particolare le materie prime – innescando una spirale inflazionistica.
L’IPERINFLAZIONE IN EUROPA NEGLI ANNI ’70 E ‘80
L’iperinflazione è una dinamica familiare all’Italia e agli altri Paesi periferici. Negli anni Settanta e Ottanta, per esempio, l’inflazione media dei GIIPS (Grecia, Irlanda, Italia, Portogallo e Spagna) era, infatti, di gran lunga superiore alla media europea del 12%, con picchi del 21% nel 1974 e del 20% tra il 1978 e il 1982.
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