Il 2022 si è concluso con una grossa novità sui mercati obbligazionari: la Banca del Giappone ha raddoppiato la banda di oscillazione tollerata per i rendimenti dei bond sovrani a 10 anni. Questi possono adesso variare da -0,50% a +0,50%. Per oltre sei anni, si erano potuto muovere all’interno del range -0,25/+0,25%. Immediata la risposta del mercato, con il rendimento decennale a viaggiare allo 0,40% dallo 0,25% pre-annuncio. Ed è probabile che ancora oggi i titoli del debito nipponico siano sostenuti dagli acquisti della banca centrale per tenersi distanti dalla soglia massima.
Dunque, l’ultima mossa di Kuroda sui bond del Giappone sarebbe finalizzata a porre le basi per una transizione controllata verso una politica monetaria più ortodossa. Ed è questa la ragione per cui gli analisti di tutto il mondo temono che il debito pubblico nazionale sia a rischio “downgrade”. L’ultima volta che subì un declassamento fu alla fine del 2014, quando Moody’s abbassò il suo giudizio da Aa3 ad A1. Da allora, però, il debito pubblico in rapporto al PIL risulta cresciuto di ulteriori 30 punti ad oltre il 260%. Tuttavia, ancora oggi i bond del Giappone riescono a mantenere rating elevati grazie alla bassa spesa per interessi.
Fine controllo curva bond Giappone?
Rispetto al PIL, questa si aggira all’1,4% contro il 3,5% dell’Italia, dove eppure il debito pubblico nel 2021 chiudeva al 150,8%. A cosa si deve un tasso implicito di circa 4,3 volte più basso? Al controllo della curva dei rendimenti. In altre parole, i bond del Giappone offrono pochissimo per il semplice fatto che la banca centrale impedisce al mercato di funzionare secondo le consuete logiche della domanda e dell’offerta. Una condizione del genere porterebbe al deflusso dei capitali, cioè anche al deprezzamento del cambio e all’impennata dell’inflazione.
Nei mesi scorsi, però, qualcosa ha iniziato ad andare storto. Il rialzo dei tassi nel resto del mondo ha incentivato i deflussi dei capitali. Lo yen è finito nel mirino della speculazione per arrestare la quale Kuroda è inizialmente intervenuto sul mercato forex per la prima volta dal 1998 e dopodiché annunciato il raddoppio dei rendimenti tollerati per i bond del Giappone decennali. Quest’ultimo movimento in sé non sarebbe ancora capace di destabilizzare il quadro finanziario del Sol Levante. Il discorso cambia se immaginiamo che il successore di Kuroda normalizzi la politica monetaria per il caso in cui si rendesse necessario combattere l’inflazione.
Al 3,8% a novembre, la crescita dei prezzi al consumo resta contenuta in rapporto a quanto accade in Europa e Nord America. Il trend, però, non è rassicurante. Il Giappone non potrebbe permettersi un rialzo dei tassi d’interesse al 2-3-4% come altrove, tant’è che ufficialmente li tiene ancora al -0,10%. Immaginate cosa significherebbe un tasso implicito sul debito al 2%. La spesa per interessi schizzerebbe al 5% del PIL, provocando un maggiore disavanzo fiscale del 3,5%. L’aspetto positivo consiste nella lunga vita media del debito pubblico sopra i nove anni, di cui un terzo da rifinanziare dopo dieci anni da oggi.
Rischio downgrade ancora stimato basso
C’è anche da dire che un’inflazione più alta aumenterebbe il gettito fiscale, per cui l’effetto netto sulle finanze dello stato potrebbe rivelarsi meno pesante del previsto. Ad ogni modo, i bond del Giappone declassati in area BBB sarebbero un grosso problema per l’intero mercato obbligazionario globale. Farebbero diretta concorrenza ai quasi 2.300 miliardi di euro di BTp in circolazione.
Il rischio “downgrade” per i bond del Giappone per il momento resta contenuto. Lo segnala il costo bassissimo dei CDS a 5 anni, a soli 17 punti base o 0,17%, un valore che capta probabilità di default attese dello 0,29%. Per l’Italia i CDS costano 132 punti o 1,32%, pari a un rischio default stimato al 2,20%. Ma questo vantaggio di Tokyo su Roma, malgrado lo stato dei conti pubblici, si fonda proprio sul sostegno illimitato della Banca del Giappone al mercato dei bond. Venendo meno, il castello di carte crollerebbe in un istante.