Saranno 87,4 miliardi di euro le sovvenzioni massime a cui l’Italia dovrebbe avere accesso con il “Recovery Fund”, sei in più di quanto fosse emerso al termine del Consiglio europeo di una decina di giorni fa. Ed è lotta contro il tempo in politica per presentare un piano credibile di investimenti e riforme ed ottenere le erogazioni a partire dall’anno prossimo. Entro un paio di mesi, infatti, la Commissione dovrà ricevere i programmi dei governi e anche se i termini saranno auspicabilmente poco perentori, urge decidere in fretta cosa farne di tutti questi miliardi a disposizione.
Patrimoniale per gli italiani con il Recovery Fund? Dal Cile arriva una pessima notizia
Se c’è una voce di spesa che in Italia dovrebbe essere potenziata e su cui si dovrebbe investire molto di più nei prossimi anni è la scuola. Pensate che ad essa dedichiamo appena il 3,5% del pil, meno degli interessi che annualmente paghiamo per onorare il debito pubblico. Queste cifre ci fanno capire istintivamente come l’Italia guardi al suo futuro meno di quanto non sia costretta a farlo con il suo discutibile passato. E si consideri che per le pensioni spendiamo ogni anno quasi 5 volte in più. Va bene la demografia, va bene tutto, ma che ci sia scarsa considerazione dei giovani e della loro formazione lo dimostra anche lo stato carente in cui versano migliaia di edifici scolastici, vero terrore delle famiglie e degli addetti ai lavori, considerato che viviamo in un territorio ad alto rischio sismico. E le tragedie di questi decenni sono lì a ricordarci quanto siamo incredibilmente ottusi.
I dati sul rapporto tra laureati e popolazione ci collocano agli ultimi posti in Europa. In media, nel Vecchio Continente ha goduto di un’istruzione terziaria il 32,3% dei residenti, percentuale che tocca il suo picco nel Nord Europa con dati anche superiori al 50% in alcune regioni (record del 71,5% nell’area di London Inner West), crollando al 14% della Sicilia, la meno istruita d’Europa. E altrove, nello Stivale, la situazione migliora di poco. Nello stesso nord non si va oltre il 20-22%, con solo la regione Lazio a superare il 25%, pur sempre decisamente sotto i livelli medi europei.
Scuola come molla per la crescita
All’università dedichiamo appena tre quarti di punti di pil, circa mezzo punto in meno della media continentale. In valori assoluti, significa che spendiamo qualcosa come 8-9 miliardi in meno ogni anno. Del resto, dopo Grecia e Belgio abbiamo il maggior numero di studenti universitari per docente: 20,2 contro una media di 15. In Germania si scende a 12,1 e in Francia a 17,5. Classi-pollaio, insomma, perché sul futuro dell’Italia c’è sempre da risparmiare, mentre quando si tratta di affrontare argomenti spinosi come le pensioni parte la tiritera dei diritti acquisiti. Non c’è futuro per una Nazione che guarda solo indietro e mai avanti.
Un piano di investimenti straordinari per la scuola italiana sarebbe un volano per la crescita nel medio-lungo periodo. In un’economia avanzata, i ritmi con cui il prodotto interno lordo aumenta di anno in anno sono strettamente legati alla capacità di generare investimenti “disruptive”, perlopiù nei comparti tecnologicamente avanzati. Se l’America è rimasta tale in piena globalizzazione è perché ospita quella Silicon Valley, in cui hanno sede centinaia di aziende della “new economy”, molte delle quali sono diventate giganti mondiali in posizioni di quasi monopolio. Ma Facebook, Google, Microsoft, Apple, YouTube, Twitter, Tesla, Netflix e tanti altri non sarebbero nemmeno potuti nascere senza l’elevato grado di istruzione dei suoi dipendenti, molti dei quali arrivati dal resto del mondo per mettere a frutto le conoscenze accumulate nelle università dei loro paesi, a spese dei rispettivi governi.
Il mondo di oggi e sempre più di domani impone specializzazione e massima personalizzazione del lavoro per competere sul mercato globale. I lavoratori meno istruiti potranno ricevere tutte le tutele che desideriamo, ma si troveranno pur sempre a produrre in competizione con i lavoratori dei paesi in via di sviluppo, retribuiti una frazione dei loro stipendi. Solo l’accumulo di conoscenze specifiche consentirà ai più di “salvarsi” e di migliore la propria posizione economica e, di riflesso, quella del territorio in cui vivono. E l’Italia non ha le carte in regola per farcela, perché per riparare alle magagne del passato sta tagliando i ponti con il suo futuro, lesinando ogni centesimo che riguardi la formazione scolastica, preludio a un disastro difficilissimo da evitare in corso d’opera.
Ennesima occasione perduta?
Il problema è che la scuola non porta voti, ma tutti i partiti politici tendono a considerarla un comparto da tenere semplicemente a bada per non indispettire l’esercito degli insegnanti. In questi decenni abbiamo avuto la sfrontatezza di definire riforme semplici tagli alla spesa, un vero crimine per milioni di giovanissimi. Serve investire parecchio sull’edilizia scolastica, sui programmi dell’istruzione secondaria e terziaria, creando percorsi quanto più aderenti alle caratteristiche e ambizioni degli studenti più promettenti per risaltarne le competenze, destinare svariati miliardi alla ricerca scientifica e tecnologica, con tanto di potenziamento degli stipendi dei ricercatori e degli strumenti/ambienti messi a loro disposizione.
Purtroppo, con ogni probabilità sprecheremo anche quest’ennesima occasione e la butteremo in caciara. Alla politica interessa il consenso spicciolo; già si frega le mani al pensiero di come “comprare” voti in quel Meridione ridotto in miseria e mendicante di lavoro e su come zittire le ire del nord produttivo con la spartizione della torta affaristica di appalti e bonus, che non creeranno un solo punto di pil e nemmeno occupazione stabile.
Quanti soldi spettano davvero all’Italia con il Recovery Fund e a quali condizioni?