La notizia che ha occupato le cronache finanziarie della scorsa settimana ha riguardato il “Recovery Fund”. Dopo l’accordo franco-tedesco su 500 miliardi, la Commissione europea ha alzato il tiro, presentando una proposta autonoma più generosa: 750 miliardi di euro da raccogliere sui mercati con emissioni obbligazionarie (debito comune), di cui una quota significativa andrebbe suddivisa tra gli stati in forma di sovvenzioni (prestiti a fondo perduto), un’altra di prestiti veri e propri. L’Italia, si è letto, risulterebbe prima beneficiaria con aiuti complessivi per 172 miliardi, di cui 82 in qualità di sovvenzioni e circa 90 di prestiti a lungo termine.
Il Recovery Fund della Commissione aiuterebbe l’Italia, ma forse troppo tardi
In realtà, i numeri stessi sarebbero diversi, oltre che la sostanza. Il vice-presidente della Commissione UE, Valdis Dombrovskis, ha subito dopo la presentazione del piano fatto notare come “l’esborso delle risorse del Recovery Fund avverrà dopo il raggiungimento degli obiettivi fissati nei piani nazionali per la ripresa”. In altre parole, gli stati che riceveranno risorse dal fondo dovranno sottoscrivere un decalogo di misure e riforme da varare per ottenerle. Il loro stanziamento effettivo avverrebbe a rate, man mano che i vertici del fondo avranno verificato l’ottemperanza da parte dei governi.
E’ quanto accade già da anni con la cosiddetta Troika (UE, BCE e FMI). In Grecia, ad esempio, gli aiuti sono stati sborsati nel decennio scorso sempre solo dopo che il governo aveva dimostrato di adempiure agli step concordati a Bruxelles sulle riforme. Per intenderci: niente riforma delle pensioni? Nuova tranche bloccata fino al suo varo. Lo stesso accadrebbe in Italia, nel caso in cui richiedessimo assistenza al Recovery Fund. Chi immaginava che le risorse ci sarebbero arrivate in un’unica soluzione e subito rimarrà di gran lungo deluso. I 172 miliardi sopra menzionati verrebbero diluiti fino a un massimo di 7 anni, tanti quant’è la durata del prossimo bilancio comunitario 2021-2027 a cui risultano collegati.
Il contributo netto scende a meno di 57 mld
E se è vero che il finanziamento sarà inizialmente sostenuto da emissioni di bond, queste a loro volta saranno coperte dai contributi nazionali pro-quota, sulla base delle dimensioni dei singoli pil. In una tabella pubblicata dalla Commissione UE, quindi, risulta che l’Italia contribuirebbe a finanziare il fondo con una quota del 12,8%, pari a 96,3 miliardi. E sempre dalla tabella emerge che il contributo massimo che le spetterebbe sarebbe di 153 miliardi, non i 172 citati dalla stampa. Al netto, gli aiuti erogati sarebbero di 56,7 miliardi, secondi solo alla Spagna con 82,2 miliardi. In ogni caso, non saremmo i primi beneficiari. Per contro, la Germania sarebbe il principale contribuente netto con 185,1 miliardi erogati a Bruxelles e solamente 51,8 miliardi percepiti. Anche la Francia prenderebbe molto bene di quello che verserebbe: 78 contro 130,3 miliardi.
Tutto ciò non significa che il Recovery Fund sia di per sé da ignorare, semmai che non rappresenterebbe quella soluzione auspicata per combattere la crisi dell’economia in corso. I contributi fluirebbero negli anni seguenti e sarebbero subordinati alla sottoscrizione di una sorta di memorandum d’intesa. Infine, i versamenti annuali dell’Italia a favore del bilancio comunitario aumenterebbero in media di 13,75 miliardi all’anno, quando già oggi risultiamo contribuenti netti di Bruxelles per 4-5 miliardi all’anno. Ne consegue che se non dovessimo richiedere e/o ricevere in toto le risorse a noi spettanti, rischiamo persino di aumentare l’esborso netto a favore di Bruxelles, malgrado la crisi dei conti pubblici destinata ad esacerbarsi negli anni con il tracollo del pil di questi mesi. E allora sì che si trasformerebbe in un boomerang.
Il Recovery Fund franco-tedesco è un passo avanti, ma non affronta l’emergenza