Grandi manovre attorno a Telecom Italia e in un articolo proposto ieri e che vi linkiamo sotto, vi avevamo mostrato quali implicazioni politiche stanno avendo le operazioni del fondo americano Elliott Management, che deterrebbe una quota superiore al 5% del capitale della compagnia e che ieri ha chiesto ufficialmente la revoca di 6 consiglieri su 15 del board, in vista dell’assemblea degli azionisti del 24 aprile. Una sfida diretta a Vivendi, il socio di maggioranza con il 24% e che rischia seriamente di perdere il controllo di fatto di Telecom e di uscirne con le ossa rotte, visto che ha rastrellato azioni al prezzo medio di carico di 1,08 euro e che le stesse oggi valgono appena 0,81 euro, pur impennatesi dai 72 centesimi di un paio di settimane fa.
Le proposte sul tavolo degli americani vanno esattamente nella direzione auspicata dal governo italiano e dei vincitori delle elezioni politiche del 4 marzo: Movimento 5 Stelle e Lega. Vediamo perché. Elliott chiede la conversione delle azioni di risparmio in ordinarie. Motivo? Si tratta di titoli, che non assegnano il diritto di voto in assemblea, ovvero non mirano alla partecipazione societaria, ma in cambio godono di una cedola garantita. Telecom non ne distribuisce da 4 anni agli azionisti ordinari, dopo che le agenzie di rating hanno declassato il suo debito a “spazzatura”. Difficile pagare dividendi, quando si viene considerati un emittente speculativo. E allora, con la conversione, si risparmierebbe qualche centinaio di milioni di euro all’anno di dividendi, consentendo alla compagnia di recuperare più velocemente il rating “investment grade”, anche grazie alla discesa sotto 3 (target 2,7) del rapporto tra debito e margine lordo a fine anno.
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Come mettere i francesi in minoranza
C’è un aspetto secondario molto interessante della conversione, bocciata da Vivendi (non a caso) nel 2015: le quote dei soci ordinari si diluirebbero di un quarto, visto che le azioni di risparmio capitalizzano oggi più di un terzo delle rispettive ordinarie.
Mettere i francesi in minoranza non sarebbe l’obiettivo, ma il primo passo verso una governance più efficiente, stando al fondo USA. E questa contemplerebbe una diversa politica con riferimento alla rete in rame. Su pressione dell’authority e del governo italiano, Vivendi ha dovuto prendere atto della necessità di scorporare la rete e di creare una newco, NetCo, a cui formalmente assegnarla. Tuttavia, questa resterebbe controllata al 100% da Telecom. Dunque, sarebbe uno “spin-off” formale, ma nei fatti a controllare la rete resterebbe ancora l’ex monopolista. Il progetto di Elliott è apparentemente molto simile, ma nei fatti profondamente diverso: scorporare la rete e assegnarla in gestione a una società, le cui azioni verrebbero assegnate pro-quota ai soci Telecom.
In pratica, se prendesse forma il piano americano, i francesi prima scenderebbe sotto al 18% per effetto della conversione delle azioni di risparmio e successivamente si ritroverebbero a capo di una pari percentuale di NetCo. Vi chiederete quale sia la differenza con l’ipotesi di Vivendi. Eccola: gli azionisti Telecom potrebbe liberamente cedere le loro quote di NetCo. A quel punto, la compagine azionaria della società di controllo della rete potrebbe risultare profondamente diversa da quella di Telecom. A comprare le quote cedute, ad esempio, vi sarebbe con ogni probabilità Cassa depositi e prestiti, ovvero una controllata statale.
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L’integrazione con Open Fiber
E non è tutto. Elliott persegue tra i suoi obiettivi l’integrazione della rete Telecom con Open Fiber. La società è oggi controllata da Enel e Cdp, ovvero da due partecipate statali. Allo stato attuale, essa varrebbe poco rispetto ai 10-15 miliardi stimati per la rete Telecom, anche se tali cifre appaiono fin troppo generose, a parere di diversi analisti indipendenti. L’integrazione tra le due reti appare problematica, essendo l’una in rame e l’altra in fibra ottica. La fusione, tuttavia, non sarebbe immediata e da qui a pochi anni, i rapporti di forza sarebbero destinati a mutare radicalmente tra le due entità. Entro la fine dell’anno prossimo, Open Fiber dovrebbe investire finanche tutti i 3,5 miliardi raccolti dal mercato e altri 2 miliardi di fondi pubblici ottenuti per le cosiddette aree a fallimento di mercato, ovvero per portare la fibra laddove non sarebbe economicamente conveniente farlo (zone poco abitate, a bassa intensità commerciale, etc.).
Non solo: man mano che verrà messa a terra la fibra ottica, il valore di quella in rame crollerà. Pertanto, anche ammesso che oggi la rete Telecom valesse 13-15 miliardi, tra 1-2 anni potrebbe valerne diversi miliardi in meno, magari non (tanti) più della rete di Open Fiber. Conseguenza? Per mezzo della fusione, lo stato sarebbe in grado di entrare in possesso della rete Telecom, la stessa che gestisce le comunicazioni tra enti governativi e dati sensibili, con una quota già in sé interessante e potenzialmente di controllo, magari destinata a salire, man mano che la Cdp rastrellasse azioni della società controllante e cedute dagli attuali azionisti ordinari e di risparmio (convertiti) Telecom.
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