A partire da marzo, la società di consulenza italiana per pmi Soluzione Tasse ha iniziato a pagare parte dello stipendio in Bitcoin ai propri dipendenti che ne hanno fatto richiesta. Una ricerca interna ha trovato che il 17% si mostrerebbe interessato a una simile soluzione, mentre il 2% vorrebbe che l’intera retribuzione fosse corrisposta in criptovalute.
Bitcoin è una moneta digitale, cioè non esiste fisicamente e non è emessa da alcuna banca centrale. Essa risulta “estratta” da utenti in rete che cooperano tra di loro per risolvere complessi calcoli matematici.
Quali e quanti tasse sullo stipendio in Bitcoin
Se volessi ricevere lo stipendio in Bitcoin, a quali rischi andrei incontro e quali opportunità mi ritroverei a cogliere? Iniziamo dall’aspetto fiscale, che forse interessa tanti lavoratori. Non esiste in Italia alcuna disciplina sul tema, bensì una serie di opinioni pubblicate dall’Agenzia delle Entrate. Fondamentalmente, dovreste sapere quanto segue: il Fisco tratta le criptovalute alla stregua di valute straniere. Ne deriva che:
- le imprese che acquistano Bitcoin devono pagare l’imposta del 26% sull’eventuale plusvalenza realizzata all’atto della rivendita;
- le persone fisiche che acquistano Bitcoin devono pagare l’imposta del 26% sull’eventuale plusvalenza realizzata, a patto che li detengano per almeno 7 giorni lavorativi consecutivi nell’anno solare per un controvalore non inferiore a 51.645,69 euro. A tale fine, si precisa che il valore di acquisto dell’asset è considerato quello vigente l’1 gennaio dell’anno in cui avviene l’investimento.
Praticamente, i piccoli investitori raramente si troveranno a dover pagare tasse sulle criptovalute acquistate. Ciononostante, tutti sono tenuti a denunciarne gli importi acquistati sulle piattaforme exchange con sede all’estero, riportandoli nel Quadro RW della dichiarazione dei redditi.
In effetti, il lavoratore sembrerebbe non dover versare nulla al Fisco, a meno di superare gli importi sopra indicati. Nel caso in cui accadesse, il valore di “acquisto” sarebbe quello vigente l’1 gennaio dell’anno solare o la data in cui l’impresa ha versato lo stipendio in Bitcoin? E l’impresa potrebbe detrarre il valore d’acquisto dal suo reddito imponibile? Ricordiamo, però, che la disciplina generale prevede l’assoggettamento alle imposte sui redditi e ai contributi previdenziali di qualsiasi corresponsione avvenuta in conseguenza di un rapporto di lavoro. Il legislatore dovrà prima o poi intervenire sul punto.
Volatilità e sicurezza informatica
A parte i dubbi, esistono diversi pro e contro. In primis, le criptovalute sono volatili e il lavoratore rischia di ricevere un accredito dal valore molto più basso dopo qualche ora, giorno o poco più. Viceversa, può accadere che il suo valore s’impenni. In teoria, questa seconda ipotesi è certamente desiderabile. Ma all’atto pratico, voi paghereste mai con una valuta il cui prezzo può raddoppiare, triplicare o decuplicare poco dopo? In altre parole, rischiamo di restare paralizzati dall’indecisione se mantenere in portafoglio l’asset o usarlo per effettuare pagamenti o ancora convertirlo in moneta fiat. Impossibile così poter ricevere l’intero stipendio in Bitcoin.
E ci sono i rischi informatici. Ad oggi, il mondo delle criptovalute si mostra vulnerabile agli attacchi cibernetici con furti finanche miliardari sulle varie piattaforme. Per contro, godremmo dell’assoluto anonimato in fase di utilizzo per l’acquisto di beni e servizi su internet e dell’estrema velocità nei pagamenti.