Entro luglio, il governo Draghi dovrà esitare una proposta di riforma dell’IRPEF con l’obiettivo dichiarato di rendere il sistema fiscale italiano più equo e al contempo più leggero. L’ipotesi su cui i tecnici stanno lavorando maggiormente riguarda l’aliquota che grava sul terzo scaglione di reddito, quella sostenuta dai contribuenti che percepiscono tra 28.000 e 55.000 euro lordi all’anno. E’ il famoso ceto medio, stangato al 38%, ben 11 punti in più rispetto all’aliquota del 27% gravanti sui redditi tra 15.000 e 28.000 euro.
Il compito del premier sarà difficilissimo. Dovrà accontentare una parte della maggioranza (Lega-Forza Italia), che chiede la riduzione delle tasse e l’aliquota unica (“flat tax”) al 15-20%, senza scontentare l’altra parte della maggioranza (PD-M5S), la quale punta più sul concetto di equità fiscale. In sostanza, i redditi più alti dovrebbero sobbarcarsi maggiori oneri a favore di uno sfoltimento del carico sui redditi medio-bassi.
Ma già oggi i contribuenti più facoltosi alimentano la gran parte del gettito IRPEF, mentre i redditi medio-bassi sono del tutto o quasi esclusi dall’imposizione. La redistribuzione c’è, ma non si vede. E il problema non è la sua entità, quanto quella della torta da redistribuire. La stagnazione secolare in cui è precipitata l’Italia da oltre 20 anni a questa parte finisce per alienare tutte le fasce dei contribuenti: i meno fortunati ritengono di non beneficiare di servizi avanzati, quelli più ricchi lamentano di pagare fin troppe tasse. Hanno ragione entrambi: la scarsa o nulla crescita del PIL costringe lo stato a chiedere sempre di più ai secondi e a limitare i servizi ai primi. L’alta pressione fiscale sui redditi medi e alti a sua volta frena la produttività, la crescita e la stessa fedeltà delle dichiarazioni. Il cane che si morde la coda.
Riforma IRPEF, i nodi
Ora, il governo Draghi vorrebbe una riforma dell’IRPEF che tagli le tasse al ceto medio.
E poiché una simile soluzione manderebbe in frantumi il governo, non la riteniamo credibile. Resta la strada del ricorso al debito. Sarebbe un’opzione difficilmente percorribile già in uno stato poco indebitato, figuriamoci in un Paese con un rapporto debito/PIL al 160%. E realisticamente, voi ce li vedete i governi del Nord Europa a prestarci denaro o a inviarcelo a fondo perduto, mentre a Roma si ammassano debiti su debiti per tagliare le tasse? Dunque, anche questa soluzione non ci sembra possibile.
In teoria, qualcosa la si riuscirebbe a ricavare dal taglio delle cosiddette “tax expenditures”, la giungla delle centinaia di detrazioni/deduzioni fiscali, il cui costo annuo per lo stato ammonterebbe a qualche centinaia di miliardi di euro. Ma è più facile da dirsi che a farsi. E specie dopo un anno di bonus a pioggia, che hanno assuefatto i cittadini-contribuenti, convincendoli che ogni tipo di spesa debba essere almeno in parte caricata sullo stato. E, soprattutto, tagliare le detrazioni significherebbe eliminare quella miriade di incentivi all’acquisto di beni e servizi. Si pensi all’abbonamento in palestra, agli elettrodomestici o agli interessi sui mutui. Le varie categorie strillerebbero e, in molti casi, finirebbero per ottenere ragione.
Maggioranza senza linea comune
E allora, su quali presupposti sta nascendo la riforma dell’IRPEF? Su un malinteso propinato dallo stesso governo: dare a tanti senza togliere niente a nessuno. Probabile che il premier abbia in mente un qualche baratto con l’Unione Europea: un taglio delle tasse minimo, in cambio di qualche riforma strutturale. Ad esempio, il mancato rinnovo di quota 100 già libererebbe risorse per circa 5 miliardi all’anno. Se fosse rivisto anche il reddito di cittadinanza, che costa sui 10 miliardi all’anno, i risparmi per lo stato sarebbero ingenti. Tuttavia, il sussidio non sembra affatto destinato ad essere ridotto, anzi già spuntano proposte da PD e M5S per aumentarne la dotazione di 2 miliardi.
Alla fine della fiera, di questo passo la riforma IRPEF sarà perlopiù di facciata. I contribuenti con redditi medi pagheranno qualche manciata di euro in meno al mese grazie a qualche sforbiciata qua e là alla spesa pubblica, ma senza creare tensioni in alcun comparto della Pubblica Amministrazione. Del resto, il ministro della Funzione Pubblica, Renato Brunetta, intende assumere migliaia di giovani per svecchiare gli uffici e al contempo ha immaginato di mandare in pensione gli attuali dipendenti con 5 anni di anticipo e senza penalità. Insomma, nessuno ha intenzione di risparmiare, ma tutti promettono che faranno pagare meno tasse. Dopo la moltiplicazione dei pani e dei pesci di biblica memoria, restiamo in attesa di verificare di cosa siano capaci il premier-banchiere e la sua maggioranza raffazzonata.