La riforma del Fondo salva-stati o Meccanismo Europeo di Stabilità sta dilaniando la politica italiana e la stessa maggioranza, con il governo Conte in vistosa difficoltà nello giustificare la propria posizione favorevole. Uno dei punti più controversi riguarda la non automaticità degli aiuti nel caso di richiesta da parte di uno degli stati membri, sebbene sarebbe corretto puntualizzare che nemmeno oggi sia previsto un esborso incondizionato dei prestiti, bensì sottoposto alla sottoscrizione di un memorandum d’intesa. Con la riforma, il governo che chiede aiuto deve impegnarsi formalmente a rispettare il Patto di Stabilità, ovvero a ridurre nei tempi previsti dai trattati successivi come il Fiscal Compact il rapporto tra debito pubblico e pil.
Per l’Italia, una botta. Non perché sia previsto che dovremmo chiedere assistenza al MES, quanto perché il mercato rischia di scontare sin da oggi che non avremmo alcun paracadute nel caso di bisogno, visto che le condizioni annesse all’assistenza finanziaria sarebbero politicamente poco praticabili e, comunque, non prevederebbero un salvataggio automatico. Ma uno dei punti più contestati e delicati ha a che fare con le Clausole di Azione Collettiva (CACs), quelle che sin dal 2013 vengono apposte a buona parte delle emissioni di titoli di stato europei, tra cui BTp.
Le CACs sono state introdotte su volontà della Commissione europea per evitare il ripetersi di una seconda Grecia. Atene dovette ristrutturare il suo debito pubblico in mano ai creditori privati nella primavera del 2012, ma per farlo affrontò un complesso meccanismo di rinegoziazione, con la convocazione di decine di assemblee degli obbligazionisti, tante quanto erano le emissioni. Da allora, si comprese l’importanza di prevedere contrattualmente e sin dall’inizio le condizioni alle quali avverrebbe un’eventuale ristrutturazione. In estrema sintesi, servono due votazioni con maggioranza qualificata: una della singola emissione sottoposta a ristrutturazione e una generale di tutti gli obbligazionisti.
Debito pubblico: ristrutturazione possibile con le CACs, ecco cosa rischia l’investitore in BTp
La riforma avvelenata delle Clausole di Azione Collettiva
Dal 2022, si cambia: per ristrutturare il debito pubblico di uno stato dell’Eurozona basterà la convocazione di un’unica assemblea (CACs “single limb”), quella degli obbligazionisti titolari di tutte le emissioni sovrane. In questo modo, il governo otterrebbe il via libera al taglio del debito e/o all’allungamento delle scadenze e/o alla riduzione/sospensione delle cedole in maniera più veloce. Problema: e se il placet non arrivasse per la presenza di una minoranza di blocco? In Italia, quale sarebbe? Considerando che le banche italiane detengano oltre 400 miliardi di euro investiti in BTp, pari a circa un quinto di tutte le emissioni, capite benissimo che esse siano considerate un possibile ostacolo per la ristrutturazione del nostro debito pubblico.
E la Germania, pur non ammettendolo esplicitamente, da anni si è convinta della necessità di abbattere per tale via il rapporto tra debito e pil in Italia, non vedendo alternative concrete praticabili e credibili in tempi non biblici. Berlino non si fida più della capacità di Roma di varare riforme fiscali serie e di lungo periodo e di potenziare il suo tasso di crescita economica. Da qui, la volontà di rimuovere qualsivoglia ostacolo che si frapponga per raggiungere l’obiettivo. E per questo pretende da anni che le banche italiane allentino i loro legami con i BTp, che li vendano con le buone, altrimenti che siano costrette con le cattive, ossia tramite l’introduzione di limitazioni e disincentivi regolamentari. Non solo un loro “no” bloccherebbe tutto, ma anche se accettassero, rischierebbero di tramutare in bancaria la crisi sovrana dell’Italia, contagiando il resto dell’area per mezzo delle interconnessioni tra istituti.
Peccato che il mix tra CACs più favorevoli alla ristrutturazione e riduzione del peso delle banche italiane tra i creditori del nostro Tesoro avrebbe come conseguenza l’aumento delle probabilità teoriche di rinegoziazione del debito pubblico italiano, spingendo sin d’ora il mercato a darsela a gambe dai BTp, a meno che questi non offrissero rendimenti extra appetibili a compensazione del maggiore rischio, ma gravando così sui conti pubblici.