Ragioneria dello Stato preoccupata per i possibili effetti negativi sui conti pubblici del mancato adeguamento alla longevità media dell’età pensionabile. Su proposta degli ex ministri del Lavoro, Maurizio Sacconi e Cesare Damiano, il governo Gentiloni vorrebbe evitare che dal 2019 scatti l’aumento di 5 mesi per andare in pensione di vecchiaia dai 66 anni e 7 mesi a 67 anni. Il costo atteso del mancato adeguamento è stimato in 1,2 miliardi di euro, soldi che dovrebbero essere reperiti già entro quest’anno.
Dall’Inps è allarme, con il presidente Tito Boeri ad avvertire che nel caso l’età pensionabile restasse invariata tra due anni, l’importo degli assegni dovrebbe essere ridotto, altrimenti i conti dell’ente sballerebbero.
E quello dell’età pensionabile non è nemmeno l’unico aspetto a potere incidere negativamente sul bilancio dello stato. C’è anche quella che giustamente Il Sole 24 Ore definisce oggi “mina perequazione”. Di cosa parliamo? La riforma Fornero del 2011 bloccava temporaneamente la rivalutazione delle pensioni all’inflazione. Nel biennio successivo fu deciso di sbloccare gli assegni, ma solo per importi fino a 3 volte il minimo. I titolari di pensioni più generose fecero ricorso e lo vinsero, tanto che il governo Renzi si trovò costretto nel 2015 a prevedere una nuova indicizzazione al 100% dell’inflazione per gli assegni fino a 3 volte il minimo, al 40% per quelli tra 3 e 4 volte, al 20% per quelli tra 4 e 5 volte e al 10% per gli importi tra 5 e 6 volte superiori il minimo. Ma il meccanismo fu solo parzialmente retroattivo, in modo che la maggiore spesa previdenziale fosse di soli 2,8 miliardi di euro. Anche in questo caso sono stati esperiti ricorsi dinnanzi al giudice e si attende che la Corte Costituzionale si esprima in merito. Nel caso stabilisse che il mancato adeguamento retroattivo fosse illegittimo, al Tesoro toccherebbe sborsare diversi miliardi in più.
Sistema pensionistico rigido e iniquo
Un disastro sul fronte di una previdenza, che fa acqua da tutte le parti. Il sistema pensionistico in Italia è diventato eccessivamente rigido, un incubo per i lavoratori, i quali nemmeno conoscono più bene a quale età effettivamente potranno andare in pensione tra 5, 10 o 15 anni, etc. Mancano regole certe e quelle che ci sono vengono percepite inique dallo stesso stato, come dimostra in questi anni la farsa delle cosiddette clausole di salvaguardia, nonché il problema degli “esodati”. (Leggi anche: Pensioni a 67 anni, scontro tra libertà e dirigismo)
D’altra parte, lo stesso ex premier Mario Monti ha ammesso che sulle pensioni si è dovuti andare oltre nel 2011, facendo il volto feroce per segnalare all’Europa e ai mercati di essere seriamente intenzionati a fare sul serio sui conti pubblici. Prendersela con il Prof bocconiano, tuttavia, serve solo a lavarsi la coscienza dopo decenni di lassismo volutamente perseguito a fini di lotta politica.
E proprio la sinistra, che oggi recita il ruolo di paladina della stabilità dei conti, porta responsabilità storiche molto gravi sulle pensioni. Era il 1994 e il governo Berlusconi tenta di approvare una riforma di sistema della previdenza, con l’obiettivo di ridurne l’incidenza di spesa sul pil. Si scatenano proteste di piazza, guidate dai tre grandi sindacati (Cgil, Cisl e Uil) e la stessa Lega Nord ritira il suo appoggio all’esecutivo, che cade alla fine dell’anno. Poche settimane dopo, nasce il governo Dini, sostenuto dal centro-sinistra e dalla Lega, che ha il merito storico di avere varato la più grande e strutturale riforma pensionistica dell’Occidente. Quello che poco prima non andava bene sotto Berlusconi divenne magicamente accettabile per sindacati ed ex oppositori sotto una guida tecnica.