Le riforme Berlusconi sulle pensioni
Sempre il governo Berlusconi nel 2004 persegue il contenimento della spesa previdenziale con la famosa riforma Maroni, quella che introduce il noto “scalone” per percepire l’assegno di anzianità. Serviranno 40 anni di contributi, indipendentemente dall’età anagrafica, oppure almeno 60 anni e 35 anni di contributi dal 2008, successivamente 61 anni (o 60 anni + 36 anni di contributi) e così via. Il centro-sinistra nel 2006 fa campagna elettorale contro quella che definisce una riforma iniqua, che costringerebbe i lavoratori ad andare in pensione di anzianità con 3 anni di ritardo.
Sempre nel 2010 e a decorrere dal 2011, il governo Berlusconi approva una nuova riforma delle pensioni, introducendo il meccanismo dell’aumento dell’età pensionabile a scatti ogni 3 anni, sulla base della longevità media rilevata dall’Istat e alzando l’età pensionabile per le donne nel settore privato da 60 a 65 anni. E in piena crisi dello spread tenta di alzare progressivamente l’età pensionabile per le donne nel settore privato a 66 anni, ma spalmando l’aumento in una decina di anni. Troppo lento per la UE, che nei fatti chiederà una riforma più veloce al successore, con effetti sociali che tutti conosciamo. (Leggi anche: Pensioni anticipate, in arrivo correttivi per Ape sociale)
Troppi danni da 20 anni di demagogia sulle pensioni
Eppure, le due riforme in era Berlusconi hanno ridotto la spesa pensionistica dal 2005 al 2060 di 40 punti di pil. Numeri usciti fuori qualche giorno fa dalla Ragioneria dello Stato, non da un comunicato di Forza Italia. La riforma Fornero ha generato, risparmi, invece, per altri 20 punti di pil. Ovvero, sono state proprio le misure adottate sotto i governi di centro-destra ad avere maggiormente ridotto la spesa previdenziale nei decenni, pur essendo socialmente molto più eque e graduali di quelle varate con l’accetta a fine 2011, quando in un clima di caccia alle streghe non fu possibile alcuna reale discussione sui provvedimenti contenuti nel “decreto salva Italia”.
Sulle pensioni pesano 20 anni di demagogia politico-sindacale, specie a sinistra. Pensate se già dal 1995 avessimo innalzato per tutti l’età pensionabile a 65 anni e con il sistema contributivo, prevedendo l’uscita anticipata dal lavoro solo nei casi di possesso di 40 anni di contribuzione? La solidità del sistema previdenziale italiano sarebbe stata di gran lunga superiore a quella odierna e persino l’equità ne sarebbe risultata superiore, perché non si sarebbero fatti figli e figliastri e forse si avrebbero avuti i quattrini necessari per ipotizzare assegni più dignitosi (e finanziariamente sostenibili) per quella fascia di pensionati maggiormente in difficoltà.
La politicizzazione del dibattito sulle pensioni ha provocato troppi danni. Adesso, ci ritroviamo con un sistema iniquo per l’oggi e che tutti riconoscono sarà ancora più tale in futuro, quando le nuove generazioni saranno costrette a lasciare il lavoro più tardi, percependo un assegno più leggero, nonostante avranno versato in busta paga più contributi dei loro genitori e nonni. Complimenti ai sindacati, in particolare, che hanno riempito Piazza San Giovanni e Circo Massimo a suon di slogan rivelatisi una beffa per gli stessi partecipanti.