E anche il governo Draghi è caduto nella ragnatela della riforma delle pensioni. Dopo lo sciopero generale della settimana scorsa, i sindacati si sono presentati uniti al tavolo delle trattative con i rappresentanti dell’esecutivo, aperto su tre fronti: flessibilità, misure a favore di giovani e donne, previdenza complementare. Il dibattito ruota sempre attorno allo stesso oggetto: la fine di quota 100. Fino al 31 dicembre sarà possibile andare in pensione con almeno 62 anni di età e 38 anni di contributi. Dall’anno prossimo, questa opzione verrà meno.
Sappiamo ad oggi che il governo Draghi punta a concedere flessibilità in uscita per ragioni di equità, ma compatibilmente con la solidità del sistema previdenziale. Ed ecco affacciarsi l’ipotesi di allargare l’Ape Social ai lavoratori che svolgono professioni pesanti, nonché di puntare sul pensionamento anticipato con il solo calcolo contributivo.
Tutte le parti in gioco hanno le loro ragioni. Andare in pensione a 67 anni e tendenzialmente a 71 anni da qui alla metà del secolo non è cosa facile per tutti. Gli operai sui ponti rischiano la loro salute oltre una certa età, né le imprese sono felici di tenerli in organico in tarda età. D’altra parte, mandare in pensione tutti “presto” non è sostenibile, anche perché le nascite sono poche e il numero dei pensionati tende a crescere di anno in anno.
Riforma pensioni, le ragioni del flop
Tuttavia, i numeri raccontano anche che, a fronte di un’età pensionabile ufficiale di 67 anni, la più alta d’Europa, effettivamente un lavoratore italiano continui ad andare in pensione a 61,8 anni. Lo conferma l’OCSE, secondo cui la media dell’area è di 63,1 anni. Com’è possibile? Grazie o a causa, scegliete voi, dell’abbondante e frastagliata flessibilità concessa da numerose scappatoie.
Nell’insieme, siamo riusciti a creare un sistema previdenziale iniquo, confuso e non sostenibile. Insomma, siamo stati capaci di scontentare proprio tutti. Il male dei mali è considerato dai più la legge Fornero, ma già da prima si cercava di allungare l’età pensionabile con palliativi grotteschi, come quello di erogare il primo assegno a distanza di 13 mesi dal raggiungimento dei requisiti. L’innalzamento dell’età ufficiale è servita all’allora governo Monti per fare la faccia feroce in pubblico e rassicurare i mercati e l’Europa circa lo stato dei nostri conti pubblici. Comprensibile, ma nei fatti inefficace. Dal giorno successivo, la politica si è messa in moto per trovare le mille scappatoie con cui svuotare di significato la riforma da essa stessa votata, al fine di placare le ire delle categorie.
Sarebbe stato e continua ad essere meglio propendere a un’età pensionabile ufficiale più bassa, magari non sotto i 65-65 anni e mezzo. In cambio, dovrebbero essere eliminate quasi tutte le scappatoie che consentono alle categorie più sindacalizzate di lasciare il lavoro troppo presto. Riuscire ad innalzare l’età pensionabile effettiva a 64 anni sarebbe un obiettivo grandioso per la nostra credibilità internazionale. Ma una simile riforma sconterebbe critiche feroci tra i lavoratori a cui non sarebbe più consentito andare in pensione a 60 anni o anche prima. Perplessità sorgerebbero anche in Europa per via dell’ammorbidimento del requisito principale. Solo un governo credibile come quello di Mario Draghi riuscirebbe a convincere Bruxelles che meglio sarebbe smetterla di fingersi duri per consolidare la stabilità dei conti INPS nei decenni.