Il 7 febbraio si sarebbe dovuto tenere un incontro tra governo e sindacati per fare il punto politico sulla riforma delle pensioni. Il vertice è stato rinviato alla settimana prossima e sarà un tavolo tecnico, si apprende dalle parti. E già questo non è stato un buon segnale per i lavoratori italiani. Significa che le distanze tra le richieste dei sindacati e le concessioni disposto ad offrire l’esecutivo restano forti. I primi invocano flessibilità in uscita e garanzie per i futuri assegni dei giovani, penalizzati dal calcolo interamente contributivo e dalle condizioni contrattuali più precarie.
Il governo sarebbe disposto a consentire ai lavoratori di uscire dal lavoro non prima dei 64 anni di età, che è anche la media OCSE dell’età pensionabile effettiva. Non è un caso, infatti, che quest’anno con quota 102 si abbia bisogno di 64 anni di età e 38 di contributi per anticipare il pensionamento. Ma la riforma delle pensioni non sarebbe vicina per un paio di ragioni. La prima sarebbe squisitamente politica: Draghi ha perso il treno per il Quirinale e adesso non si sente più vincolato ai partiti che lo sostengono. Perché dovrebbe concedere qualcosa agli stessi leader che lo hanno “tradito” durante l’elezione del nuovo presidente della Repubblica?
Riforma pensioni, lo scoglio dello spread
Ma il limite più stringente per qualsivoglia riforma delle pensioni si chiama spread. E’ tornato a far male. I rendimenti dei BTp si stanno impennando sull’atteso rialzo dei tassi BCE entro l’anno. Gli acquisti di bond nell’Eurozona si ridurranno nei prossimi mesi, per cui fare deficit diverrà più costoso, anzi lo sta già diventando. Tutto può permettersi Draghi in questa fase, fuorché dare l’immagine di un premier che spende troppo e accumula nuovi debiti.
Dunque, la riforma delle pensioni che verrà porterà un po’ di flessibilità in più in uscita, ma facendola ricadere sui lavoratori stessi. Come? Attraverso la decurtazione dell’assegno. Prima vai in pensione e meno prendi. Un ragionamento in sé ineccepibile. Resta da vedere se prevarrà la proposta di Pasquale Tridico, presidente INPS, secondo il quale a 64 anni il lavoratore potrebbe ottenere solo la quota contributiva dell’assegno e a 67 anni anche quella retributiva, cioè l’assegno pieno. Un’ipotesi che non incontrerebbe l’entusiasmo di governo e partiti, non fosse che per la platea ristretta a cui si rivolgerebbe. Chi può permettersi, infatti, di andare in pensione tre anni prima con un assegno parziale?