Nessuno al mondo possiede riserve auree ingenti quanto gli Stati Uniti d’America. Sono ben 8.133,46 tonnellate. Tanto per capirci, in seconda posizione c’è la Germania con 3.351,53 tonnellate e terza l’Italia con 2.451,84. I lingotti di zio Sam sono detenuti per oltre la metà prezzo i forzieri di Fort Knox. Nelle scorse settimane, si era diffusa la notizia che il Tesoro americano avrebbe di lì a breve proceduto a rivalutare questo asset. Il segretario Scott Bessent, tuttavia, ha smentito.
Riserve auree a bilancio come nel ’73
Resta il fatto che sin dal 1973 le riserve auree americane siano valutate ufficialmente a bilancio ad appena 42,22 dollari l’oncia. Varrebbero, insomma, poco più di 11 miliardi di dollari. Ma le quotazioni di mercato hanno ormai superato i 3.000 dollari. Ai prezzi attuali, dunque, esse varrebbero più di 780 miliardi. C’è una discrepanza di oltre 700 miliardi tra la valutazione ufficiale e quella reale.
Perché il governo non si decide una volta per tutte ad adeguare la prima?
Se solo lo facesse, si ritroverebbe in un istante con oltre 700 miliardi di maggiore ricchezza. Qualcosa come circa 2 punti e mezzo di Pil in più. Soldi che potrebbero andare ad abbattere l’enorme debito pubblico o a finanziare la nascita di un fondo sovrano, ipotesi a cui lavora l’amministrazione Trump. Il punto è che servirebbe l’autorizzazione del Congresso per rivalutare le riserve auree, trattandosi di un asset federale. Ammesso che arrivasse, il problema sarebbe cosa farne e come evitare di inviare ai mercati il segnale sbagliato.
Banche centrali fanno incetta di oro
Monetizzare la rivalutazione significherebbe vendere le riserve auree.
E ciò non sarebbe affatto saggio in un’epoca nella quale le principali banche centrali non occidentali stanno facendo incetta di oro per allentare la loro dipendenza dal dollaro. Fino al 1971 il metallo giallo fungeva da asset a copertura delle monete nazionali per i 44 stati facenti parte dell’Accordo di Bretton Woods. In pratica, più oro possedevi e più moneta potevi stampare. Il sistema saltò per la necessità degli americani di spendere senza limiti con la guerra del Vietnam in corso. Economie come la Cina si preparano al ritorno a quel sistema aureo, così da offrire solidità alle rispettive monete senza affidarsi più al dollaro.
Sarà anche una prospettiva lontana, ma rinunciare alle riserve auree oggi equivarrebbe a privarsi di un asset strategico nel futuro. Oltretutto, la rivalutazione porterebbe molti a pensare che Washington stia vendendo i gioielli di famiglia per fare cassa. Una mossa della disperazione, che certo non farebbe bene all’immagine della superpotenza. Come se non bastasse, l’ufficializzazione dei 3.000 dollari l’oncia metterebbe in evidenza quanto la divisa americana abbia perso valore negli anni. E ad attestarlo nero su bianco sarebbero gli stessi States.
Musk chiede audit di Fort Knox
C’è un altro problema con cui si dovranno fare i conti verosimilmente nei prossimi mesi. Il 17 febbraio scorso Elon Musk ha scritto su X che intende condurre un audit sulle riserve auree in qualità di capo del DOGE, il Dipartimento per l’Efficienza Governativa.
Vuole verificare, in buona sostanza, se a Fort Knox esistano davvero e per le quantità dichiarate ufficialmente. Ad oggi, solamente per tre volte i forzieri hanno visto l’ingresso di personale non autorizzato: nel 1943 con il presidente Franklin Delano Roosevelt, nel 1974 per alcuni esponenti del Congresso e nel 2017 per una delegazione composta tra gli altri dal senatore repubblicano Mitch McConnell e l’allora segretario al Tesoro, Steve Mnuchin.
Un audit avrebbe effetti positivi sulla credibilità del sistema finanziario americano. A patto che le riserve auree si trovino davvero tutte. Il rischio è che in parte i lingotti nei decenni siano stati venduti per fare cassa e che le cifre dichiarate non corrispondano più al vero. Vi immaginate quale duro colpo sarebbe per la prima potenza economica, finanziaria e militare del pianeta? A quel punto, la sua parola verrebbe messa in discussione su qualsiasi altro tema.
Dubbi su riserve auree paralizzano Washington
Resta il fatto che la rivalutazione delle riserve auree appare di buon senso. Pensare di segnare una voce del bilancio pubblico come se fossimo ancora negli anni Settanta, è ridicolo. Se non lo si è fatto finora, è perché il sistema politico americano si mostra titubante e diviso sulle conseguenze delle proprie azioni. Tutti a Washington vorrebbero probabilmente aggiornare le cifre, ma nessuno sa per farne cosa e, soprattutto, teme che qualcuno al governo possa approfittarne per fare la mossa sbagliata. Paradossalmente, l’operazione potrebbe anche portare al collasso delle quotazioni nel breve, se il mercato fiutasse una maxi-vendita di oro da parte degli Stati Uniti. O al contrario, queste potrebbero esplodere sulla convinzione che l’America stia puntando “all in” sul metallo. Nel dubbio, nessuno vuole rischiare.
giuseppe.timpone@investireoggi.it