Russia e Arabia Saudita sono rispettivamente prima e seconda potenza produttrice di petrolio e insieme offrono un quinto delle estrazioni di tutto il mondo. Entrambe le economie hanno accusato il colpo negli ultimi anni, quando le quotazioni del greggio sono precipitate dai 115 dollari al barile di metà 2014 ai poco meno di 30 di inizio 2016. Per quanto nell’ultimo biennio siano nettamente risalite, esse restano di gran lunga inferiori ai livelli di 5 anni fa, anzi nelle ultime sedute sono scese a meno di 60 dollari, quando nell’ottobre scorso erano arrivate sopra 85.
Eppure, le conseguenze sono state assai diverse sul piano finanziario tra Mosca e Riad. Le riserve valutarie russe sono salite dai 478 miliardi di metà 2014 ai 520 attuali, quelle saudite sono crollate nello stesso frangente da 731 a 506 miliardi. Certo, nel caso della Russia ha contato molto il raddoppio delle riserve di oro a oltre 2.100 tonnellate, ma gli acquisti di lingotti è stato possibile proprio grazie all’afflusso netto di valuta estera, che nel caso saudita non c’è stato, così come nemmeno la corsa all’oro. Come mai queste differenze?
Il fattore dirimente è stato il cambio. Sia il rublo che il rial erano agganciati al dollaro da un cambio sostanzialmente fisso prima della crisi petrolifera del 2014. Ma la Banca di Russia nel novembre di quell’anno, con la benedizione del governo, optò per far fluttuare liberamente il cambio, così da non mettere a repentaglio le riserve. La scelta si rivelò azzeccata, sebbene nel breve termine comportò l’esplosione dell’inflazione fino all’apice del 17%. Il rublo perse fino al 60% contro il biglietto verde e ancora oggi, malgrado il rafforzamento, resta a quasi -50% rispetto a 5 anni fa.
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Cambio fisso per il regno
Riad non ha ritenuto, invece, di dover porre fine al “peg” e ha tenuto ancorato il cambio a 3,75 contro il dollaro.
Grazie alla flessibilità, la Russia ha potuto contare su entrate fiscali relativamente stabili, con deficit piuttosto contenuti e il cui apice è stato toccato nel 2016 con il 3,65%, mentre l’Arabia Saudita ha assistito a un tracollo delle proprie entrate, registrando disavanzi fino a oltre il 17% del pil nel 2016, trainati anche dalla politica espansiva con cui il regno ha cercato di reagire alla crisi. E dire che negli stessi anni, il Cremlino ha subito le sanzioni dell’Occidente sull’occupazione della Crimea, che in teoria avrebbero dovuto mettere di gran lunga sotto pressione le sue finanze.
In definitiva, le riserve in valuta straniera della Russia hanno beneficiato della flessibilità del cambio, quelle saudite no. Il mantenimento del “peg” è stato il prezzo che il regno si è voluto concedere di pagare per non surriscaldare l’inflazione domestica e per segnalare la propria stabilità finanziaria ai mercati. Del resto, le sue riserve pre-crisi eccedevano le dimensioni dello stesso pil, per cui Riad non ha fatto altro che utilizzare i risparmi accumulati prima del tracollo delle quotazioni, che nell’anno 2008 erano arrivati alla cifra monstre del 30% del pil.
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