L’inflazione fa ricchi i pensionati italiani. Tranquilli, si tratta di una provocazione. Per definizione l’aumento dei prezzi al consumo colpisce particolarmente i titolari di redditi fissi, cioè lavoratori dipendenti e pensionati. C’è, però, da dire che i secondi appaiono ben più tutelati. Se di aumenti degli stipendi non si vede l’ombra, sappiamo con certezza che la rivalutazione delle pensioni nel 2023 sarà “maxi”. Prima di approfondire, facciamo un passo indietro e spieghiamo come funziona il sistema di indicizzazione degli assegni.
- rivalutazione al 100% dell’inflazione per gli assegni fino a 4 volte il trattamento minimo (2.062 euro al mese);
- rivalutazione al 90% dell’inflazione per gli assegni compresi tra 4 e 5 volte il minimo (2.062-2.578 euro al mese);
- rivalutazione al 75% dell’inflazione per gli assegni sopra 5 volte il minimo (sopra 2.578 euro al mese).
Maxi-rivalutazione pensioni 2023
Lo scorso anno, il Tesoro fissò una rivalutazione dell’1,7%. Solo che l’ISTAT ha stabilito che l’indice dei prezzi nel 2021 è cresciuto dell’1,9%. La differenza dello 0,2% sarà recuperata con l’erogazione degli assegni a gennaio. Ad esempio, un pensionato che prende 800 euro al mese per 13 mesi, si ritroverebbe accreditata tra sei mesi una somma di 20,80 euro in più solamente per il recupero della rivalutazione delle pensioni su quest’anno.
Nel frattempo, poi, l’inflazione ha subito una brusca accelerazione. Stando al dato di maggio, essa è salita al 6,8%. Se il dato dell’intero 2022 fosse questo, il costo che lo stato dovrà sostenere per pagare le pensioni l’anno prossimo salirebbe di almeno una decina di miliardi di euro. E il capitolo previdenza è diventato troppo sensibile per il governo Draghi. L’Unione Europea ha tirato le orecchie a Roma, ricordandole che stiamo spendendo troppo sulle pensioni.
Possibile riforma per risparmiare
Ed ecco che si affaccerebbe l’ipotesi di rivedere i criteri per la rivalutazione delle pensioni, chiaramente in senso meno favorevole ai titolari. Attenzione, si tratterebbe di indicizzare gli assegni un po’ meno sopra certi importi relativamente elevati. E considerato che, in genere, gli assegni più alti sono stati calcolati con il metodo retributivo, ben più favorevole ai pensionati del metodo contributivo, non ci sarebbe da stracciarsi le vesti. Di certo, il tema non toccherebbe le tasche della stragrande maggioranza dei pensionati. Diciamolo in maniera chiara: il governo non si starebbe sognando di aumentare meno le pensioni di 500-1.000 o 2.000 euro al mese, bensì di risparmiare qualcosa su quelle ben più alte.
Non è neppure detto che la riforma “in peius” vi sarà. A ridosso delle elezioni non è mai facile colpire alcuna categoria sociale. E’ pur vero, però, che i partiti non potranno pretendere la moglie ubriaca e la botte piena. Chiedono maggiore flessibilità in uscita dal lavoro e verosimilmente ciò si tradurrà entro l’anno in una qualche misura che consentirà ai lavoratori di anticipare il pensionamento, magari rinunciando a una parte dell’assegno. Nel frattempo, propongono il taglio del cuneo fiscale, cioè dei contributi INPS a carico di datore di lavoro e dipendente. Comunque la si veda, maggiori costi per la previdenza e minori entrate. Inoltre, l’alta inflazione aumenta anche la rivalutazione del montante contributivo, cioè tende ad accrescere l’importo degli assegni futuri. Insomma, il capitolo previdenza assorbe già grandi risorse.