Il Trattamento di Fine Rapporto (TFR) sembrava destinato all’ignominia, mentre il 2022 ha sortito l’effetto insperato di rivitalizzarlo più che mai. La stragrande maggioranza dei lavoratori italiani ancora oggi mantiene gli accantonamenti in previsione della vecchiaia nella stessa azienda. Alla fine di dicembre, le adesioni ai fondi pensione erano 10,3 milioni, pur in crescita del 5,8%, per masse gestite pari a 205 miliardi di euro, in calo di 7,7 miliardi. Il loro numero non equivale a quello degli aderenti, in quanto un lavoratore può iscriversi a più gestioni.
Ma, dicevamo, il 2022 ha riscattato il TFR dall’infamia di essere uno strumento vetusto e inefficiente per l’allocazione dei capitali. E’ accaduto, invece, che la maxi-rivalutazione avvenuta proprio nel corso dell’anno passato abbia mandato in tilt tutti i dati oggetto di analisi. Tra il dicembre del 2021 e il dicembre del 2022, la rivalutazione del TFR è stata del 9,75%. Come si è arrivati a questa cifra? Il TFR è l’accantonamento a cui l’azienda è obbligata in favore dei propri dipendenti. Esso è pari al 6,91% della retribuzione annua lorda del lavoratore, grosso modo quasi una mensilità.
TFR meglio dei fondi negli ultimi 10 anni
Tali accantonamenti devono naturalmente essere rivalutati di anno in anno. Di quanto? Del 75% del tasso d’inflazione annuale nel mese di dicembre, aumentato dell’1,50% fisso. Poiché a dicembre l’inflazione FOI dell’ISTAT è stata dell’11,3%, il calcolo finale ci porta al 9,75%. Questo dato si confronta con il -9,8% accusato dai fondi pensione negoziali, con il -10,7% dei fondi pensione aperti e con il +1,1% dei PIP.
Cos’è accaduto ai fondi pensione? Essendo investitori sui mercati finanziari, hanno risentito negativamente del tracollo contestuale sia delle azioni che delle obbligazioni.
Restringendo l’analisi agli ultimi cinque anni, il TFR batte ancora i fondi pensione con un rendimento medio annuo del 3,3% contro lo 0,4% dei negoziali e lo 0,2% dei fondi aperti. Ha fatto molto meglio anche dell’1,4% dei PIP. Stesso discorso per gli ultimi tre anni: +4,3% contro -0,8%, -0,7% e +1,3%. Questi numeri segnalano un problema per quei lavoratori che si ritrovano a ridosso della pensione e con una storia di versamenti non troppo lunga. Non avranno verosimilmente il tempo di recuperare le perdite accusate dai fondi a cui hanno aderito. In pratica, il TFR avrebbe reso loro di più.
Fondi pensione in ripresa?
Il discorso cambia per i lavoratori più giovani. Nei prossimi anni, i fondi pensione dovrebbero riuscire a risalire la china e tornare a battere la rivalutazione del TFR. Poiché azioni e bond sono diventati molto più economici di un anno fa, i loro prezzi con l’allentamento della stretta monetaria globale futura risalirebbero. Nel frattempo, poi, da un lato i fondi hanno registrato forti perdite sugli asset in portafoglio, dall’altro stanno potendo impiegare la liquidità che si è venuta liberando dai disinvestimenti a rendimenti nettamente maggiori del recente passato.
Ovviamente, nessuno può garantire che le borse torneranno a salire e di quanto. Il passato ci suggerisce che così dovrebbe accadere, ma la storia non è mai uguale a sé stessa, sebbene alcuni meccanismi finanziari tendano a riprodursi nel lungo periodo. D’altra parte, non esiste neppure la garanzia che i rialzi azionari e obbligazionari negli anni siano capaci di conservare il potere di acquisto dei capitali investiti.
Se la concorrenza del TFR resterà così forte, è verosimile che i fondi pensione in Italia offriranno soluzioni più “spinte” sulla componente azionaria. Ma essa esporrebbe gli iscritti a rischi maggiori, nonché a una volatilità che poco si confà a chi punta semplicemente a garantirsi una vecchiaia più serena. Insomma, la maxi-rivalutazione del TFR in tempi difficili ha rimescolato le carte. I mercati non potranno più guardare dall’alto in basso uno strumento nato in tempi lontani e che ha retto alla prova dei fatti.