Il salario minimo legale a 9 euro l’ora non s’ha da fare. Almeno è quanto si direbbe ascoltando sindacati e Confindustria, entrambi una volta tanto ritrovatisi in sintonia contro la proposta del Movimento 5 Stelle di Luigi Di Maio. Le imprese sono chiaramente preoccupate da una misura, che se venisse applicata renderebbe difficile la vita delle piccole e micro- imprese, e non solo. Una retribuzione minima per legge di 9 euro all’ora corrisponderebbe a un trattamento lordo mensile superiore ai 1.500 euro.
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Troppi, considerando i livelli medi degli stipendi in Italia. I rischi per l’economia sarebbero di vario tipo: contratti full-time trasformati in part-time solo formalmente, ma a parità di ore effettive lavorate, ossia più lavoro nero o direttamente assunzioni senza contratto regolare; appiattimento dei salari, con i livelli retributivi medio-alti ad essere sacrificati per compensare le perdite delle imprese riguardo ai livelli medio-bassi; riduzione dell’occupazione poco qualificata; contraccolpo alle esportazioni per la perdita di competitività delle imprese italiane sui mercati esteri; aumento della spesa pubblica per il maggiore costo di beni e servizi acquistati dalla Pubblica Amministrazione dalle imprese private; inflazione.
I sindacati corrono un rischio sopra ogni altro, cioè di perdere ulteriore peso in fase di rappresentanza degli iscritti nelle trattative con gli imprenditori. Perché? Ad oggi, il salario minimo legale formalmente non esiste in Italia, ma il nostro sistema giuslavoristico si fonda sulla contrattazione collettiva, vale a dire che gli stipendi e le condizioni non retributive dei lavoratori vengono fissati da uno dei numerosi schemi contrattuali nazionali (ve ne sono circa 45), per cui difficilmente un dipendente subordinato rimane scoperto, a parte che non sia un cosiddetto “atipico”, vale a dire con un inquadramento a metà tra il dipendente e l’autonomo, per intenderci i “co.
Salario minimo legale e tasse
L’eventuale introduzione del salario minimo svuoterebbe di significato proprio i contratti nazionali, che sono in mano ai sindacati, per creare condizioni tendenzialmente uguali un po’ per tutti i lavoratori e facendo venire meno in loro il desiderio di iscriversi al sindacato (già oggi quasi nullo) per ottenere tutele in fase negoziale. Se tutti i lavoratori percepissero non meno di 1.500 euro lordi al mese con un contratto a tempo pieno, almeno una delle loro principali preoccupazioni svanirebbe e così anche la pressione sulle aziende, affinché aderiscano a uno dei modelli contrattuali vigenti. In pratica, i sindacati perderebbero il potere residuale di cui ancora dispongono, oltre che numerosi iscritti tra le fasce operaie e basso-impiegatizie.
Il salario minimo legale, ad ogni modo, resta una scelta sbagliata per un’economia gravata da una pressione fiscale ancora superiore al 42% del pil. Se vuoi aumentare le retribuzioni dei lavoratori, inizia a tagliare loro le tasse, il famoso “cuneo fiscale”, cosa che accontenterebbe anche le imprese, in quanto la distanza tra la busta paga lorda e quella netta si ridurrebbe e ciò che queste ultime versano ai dipendenti si noterebbe di più; il potere di acquisto dei lavoratori aumenterebbe, col tempo seguirebbe anche la crescita della produttività e dell’occupazione, dando vita a un circolo virtuoso, per cui il maggiore numero degli impiegati e il contestuale calo dei disoccupati creerebbero pressioni salariali al rialzo, adeguando automaticamente i salari, causa bassa offerta.
Succede nella Germania di questi anni, dove il salario minimo è stato sì introdotto sul baratto politico tra destra e sinistra, ma in un contesto di disoccupazione tendente già ai minimi dagli anni Ottanta e di retribuzioni quasi tutte superiori ai livelli legalmente fissati.
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