L’ultima dichiarazione avrebbe attirato gli strali della premier Giorgia Meloni, la quale gli avrebbe inviato un sms riservato non esattamente zuccherino. Quel “quando un popolo vota, ha sempre ragione” con riferimento alla vittoria di Vladimir Putin in Russia è suonato come un attacco alla politica estera dello stesso governo italiano. Matteo Salvini ha finto di non capire, come l’altro vice-premier Antonio Tajani aveva osservato, che a Mosca le elezioni non siano state “né libere, né eque”. Un modo del segretario della Lega di distinguersi a tutti i costi e quotidianamente dalle dichiarazioni ufficiali degli altri componenti dell’esecutivo.
I timori di Salvini
Il segnale di nervosismo lo ha dato in Sardegna, dove i suoi uomini sul territorio avrebbero indicato il voto disgiunto agli elettori per far capire a Meloni di non avere il comando assoluto della coalizione. Per non parlare delle bordate contro l’Unione Europea, proprio mentre la premier volava in Egitto con la presidente della Commissione, Ursula von der Leyen. Non passa giorno che non vi sia una qualche dichiarazione di Salvini che vada in direzione, se non contraria, certamente non allineata a quella del resto della maggioranza.
Tutto ruota attorno alle elezioni europee del prossimo 9 giugno. Sarà un sondaggione nazionale in cui i partiti certificheranno lo stato dei rispettivi consensi. Salvini teme due cose: che Fratelli d’Italia stravinca e che Forza Italia prenda più voti del Carroccio. Per questo è in cerca di visibilità. Prova ad occupare possibili spazi elettorali alla destra di Meloni, la quale sta perseguendo una politica moderata e di concordia con Bruxelles. Ed ecco che spuntano la candidatura del generale Roberto Vannacci e gli attacchi contro il Partito Popolare Europeo, che dopo le elezioni si alleerebbe con i conservatori di cui è leader Meloni, mentre rifiuterebbe ogni accordo con gli euro-scettici di Marine Le Pen e, per l’appunto, Salvini.
Lega dalle stelle alle stalle
Il leghista non ha elaborato il lutto di cinque anni fa. Era l’uomo più potente d’Italia all’epoca in cui faceva il vice-premier del primo governo Conte. Alle europee ottenne più del 34% dei consensi. La Lega non era mai stata così forte neppure negli anni d’oro dei governi di centro-destra a guida Silvio Berlusconi. Perse tutto con una frase pronunciata l’8 agosto del 2019 al Papeete Beach di Milano Marittima. Tra un mojito di troppo, qualche colpo di sole e l’ubriacatura del potere, Salvini gettò alle ortiche tutto per andare a finire tra i banchi dell’opposizione senza alcuna capacità di incidere sulla politica italiana fino al ritorno al governo del centro-destra nell’ottobre del 2022.
Tuttavia, è un Salvini ridimensionato quello di oggi. La Lega un anno e mezzo fa dimezzava i suoi consensi rispetto al 2018, scendendo sotto il 9%. Vale un terzo di Fratelli d’Italia, partito che alle elezioni precedenti aveva ottenuto poco più del 4%. Se il segretario non è stato sfiduciato dai suoi uomini, è solo perché non esistono alternative più convincenti. La Lega, tutto sommato, è tornata alle stelle percentuali di sempre, forse anche qualcosa in più. Meglio fece solo nel 1996, all’epoca in cui il senatur Umberto Bossi si presentò da solo alle elezioni politiche e superò la doppia cifra.
Alternative nazionali non ce ne sono
La Lega dispone di tanti bravi amministratori, tra cui Luca Zaia e Maurizio Fedriga, governatori rispettivamente di Veneto e Friuli-Venezia-Giulia. Ma non sono leader. Non basta amministrare bene i territori per guidare un partito nazionale e scaldare i cuori degli elettori. Chiedere anche a sinistra a quello Stefano Bonaccini trafitto alle primarie da una semi-sconosciuta e inesperta Elly Schlein.
Ritorno alle origini possibile
E se fosse la cosa giusta da fare? Il problema, anzi la frustrazione di Salvini, è oggi di essere una fotocopia di Fratelli d’Italia, partito più credibile sul piano nazionale. E’ costretto ad esasperare alcune posizioni per cercare di mettere nell’angolo l’alleato, ma questa linea gli ha alienato non solo le simpatie della base storica leghista, bensì di quel popolo delle partite iva che tanta fiducia negli anni aveva accordato al suo partito. L’elettorato nordista sarà anche contestatario, ma non al punto di perdere la bussola. Chiede concretezza, capacità di trasformare slogan in provvedimenti concreti e di tutelare le aree produttive. Salvini si dimostra abile a fare comizi, molto meno nel dare sostanza alle istanze.
Gli attacchi all’Europa non scaldano i cuori del Nord. Gli imprenditori simpatizzanti della Lega detestano i burocrati di Bruxelles, ma hanno bisogno di mercati aperti per fatturare ed esportare. E meno che mai vogliono vedere l’Italia in un angolo a non contare nulla ai vertici europei, cosa che accadrebbe con un Salvini lasciato libero di dare sfogo alle sue pulsioni euro-scettiche. Meloni si è rivelata più concreta, rassicurante e con un disegno strategico di lungo respiro. Il leghista punta tutto sul ritorno alla Casa Bianca di Donald Trump, dimenticando che fu proprio il tycoon che con un tweet nell’estate del 2019 a favore di “Giuseppi” (Conte, ndr) ne confermò la permanenza a Palazzo Chigi per un bis con il PD.
Scarsa coerenza programmatica non paga
Salvini era stato un fedele alleato di Trump, ma al contempo risultava troppo filo-putiniano per essere accettabile agli occhi di Washington. E questo gli americani non lo dimenticheranno nemmeno in futuro, chiunque vincesse le prossime elezioni presidenziali di novembre. Al segretario della Lega manca la strategia, non difettandogli la tattica. Difficilmente si potrà spingere oltre. Il suo partito non tollererebbe un secondo Papeete. Perderebbe ulteriori consensi e la base chiede fatti, non slogan. La frustrazione è destinata, invece, a restare. Nel centro-destra c’è sempre stato un grosso partito alleato di partiti nettamente inferiori per consensi. Prima fu il caso di Forza Italia e del Pdl, dopo della stessa Lega e oggi di Fratelli d’Italia.
Gli elettori a destra si affidano di fase in fase a un partito sopra ogni altro. Ciò agevola anche la coabitazione, dato che diventa chiaro chi debba comandare. Salvini ha perso il suo treno e adesso non può che doverne trarre le conseguenze. Meloni è stata una maratoneta. E’ cresciuta lentamente, ma ha costruito il suo consenso sulla solidità di un’identità e di un programma chiari. La Lega è stata esplosiva, ma è scoppiata non appena gli elettori ne hanno fiutato il bluff. Non puoi tenere dentro chi invoca più sussidi e spesa pubblica e chi chiede di tagliare l’assistenzialismo. Così come non puoi sfuggire alle istanze nordiste per raccattare consensi al Sud.
Salvini si gioca tutto alle elezioni europee
Alla premier non conviene che la Lega esca malconcia dalle elezioni. Salvini rischierebbe di diventare realmente destabilizzante. Ma se le cose dovessero andare proprio male per lui, a quel punto per la stabilità del governo sarebbe opportuno che nella Lega si facesse chiarezza definitiva. Meglio se avanzasse un’alternativa per la segreteria dai dintorni programmatici nitidi e magari meno ambiziosi. Un ritorno alle origini nordiste equivarrebbe quasi certamente a rinunciare al sogno della premiership, ottenendo in cambio risultati più tangibili come ai tempi di Bossi a fare da pungolo nei confronti di Silvio Berlusconi. E questo garantirebbe a Meloni di trattare con un alleato dagli obiettivi definiti anche nel medio-lungo termine. La competizione interna alla coalizione si farebbe meno intensa, almeno tra Lega e Fratelli d’Italia.