Sanità allo sfascio: 5 segreti non detti svelati dai dipendenti | Intervista

In un'intervista con un' infermiera professionale scopriamo quali sono i retroscena del Sistema Sanitario Nazionale.
7 anni fa
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P.: Alessia, come vivi il rapporto con i tuoi colleghi? Lavorate tutti allo stesso modo, con la stessa responsabilità ed eseguendo le stesse mansioni?

A. :Come accade in tutti gli ambienti lavorativi, purtroppo, non lavoriamo tutti allo stesso modo: c’è chi va a 300 e chi va a 10. Non si può fare una colpa a chi è più lento e meno reattivo, però, perchè quello è il loro modo di affrontare il lavoro: a volte a mancare sono le energie e la fisicità necessarie a fare determinate cose con un certo ritmo.

Non c’è organizzazione, ci vengono chieste tane, troppe cose e non abbiamo le energie per poter far fronte a tutto. Non veniamo considerati infermieri ma dei veri e propri factotum, a volte ci vengono chiesti sforzi davvero disumani: portiamo i prelievi in laboratorio, portiamo i pazienti in radiologia, imbocchiamo i pazienti che non riescono a mangiare da soli. Si parla, come ti ho già detto, perlopiù di persone anziane che hanno bisogno nella maggior parte dei casi di assistenza anche nel prendere un bicchiere d’acqua. Siamo sempre noi a dover passare camera per camera per accertarci che i pazienti abbiano mangiato, bevuto, assunto la terapia. Quello che manca, come ti ho già accennato prima, è la figura intermedia, ovvero l’OSS. Se parli con colleghi del nord sembra andare tutto bene, probabilmente perché al nord queste figure sono presenti e rappresentano un grosso aiuto nello svolgimento della nostra professione. Se ci fosse questa figura intermedia, forse, il rapporto tra colleghi potrebbe anche essere più sereno perché non si vivrebbe l’ansia delle prestazioni richieste e non si vivrebbe l’ansia di dover far fronte a tante cose tutte insieme.

P. : Quanto ha influito il taglio del personale nel rapporto tra colleghi e nel servizio offerto ai pazienti?

A.: Ti faccio un esempio che mi è capitato proprio oggi.

Io smontavo dalla notte e la dirigente mi ha chiesto se ero disponibile a fare anche il turno di pomeriggio: dopo 11 ore di lavoro di notte avrei dovuto lavorare di nuovo nel pomeriggio. Assolutamente non è possibile fisicamente e mentalmente. Dopo un turno di lavoro, almeno io, sento il bisogno di uscire fuori dall’ospedale perché altrimenti non potrei essere coerente con me stessa e con i pazienti, non potrei svolgere il mio lavoro con la serietà e la determinazione necessaria che le 6 ore di riposo mi avrebbero concesso. Purtroppo noi viviamo questa realtà  tutti i giorni a causa della carenza di personale. Siamo stanchi, siamo in burn out e nessuno se ne rende conto perché nessuno ci guarda se non per puntare il dito sulle nostre presunte mancanze senza rendersi conto che dietro c’è la stanchezza di tirare avanti mentre ci viene chiesto di eseguire troppe cose che esulano anche dai nostri reali compiti. Nessuno sembra avere rispetto di noi  come persone e come figure professionali, come esseri umani in primis: non siamo dei robot, oltre alla stanchezza risentiamo anche delle critiche immotivate e delle generalizzazioni che sempre più spesso riguardano gli infermieri.

P.: Tu personalmente, per migliorare la situazione dell’attuale sanità che si vive negli ospedali, per il bene dei pazienti e del personale, cosa cambieresti?

A.: Innanzitutto diminuirei la burocrazia perché negli ospedali non serve, quello che serve è l’umiltà, l’umanità e la disponibilità. Servono i medici che siano medici e non persone che hanno paura anche di poter esprimere il proprio parere su una diagnosi. I medici molto spesso sono “imbavagliati” dalla paura di una possibile denuncia. Anche i medici, quindi, lavorano male e sotto stress. La conseguenza è quella di trasmettere lo stress a noi infermieri che poi lavoriamo nella stessa modalità.

Al momento io sono iscritta ad un sindacato ma ho deciso di destinare i soldi dell’iscrizione ad un’assicurazione per salvaguardarmi da possibili denunce. Il nostro stipendio è misero rispetto a quello che facciamo e ai rischi che corriamo: sfido chiunque a trascorrere una giornata insieme a noi , a vivere quello che viviamo, a subire quello che subiamo per capire con quale spirito, a fine turno, si torna a casa. Altra cosa che cambierei è il dare meno potere ai parenti dei pazienti, perché sono proprio i parenti che rovinano il rapporto con i pazienti. Cambierei anche gli accessi al Pronto soccorso, facendo pagare una quota a chi arriva senza un reale bisogno (magari per un’influenza o un raffreddore) togliendo, poi, attenzione a chi ne ha realmente bisogno e usa il pronto soccorso per una vera urgenza. Se anche le prestazioni più stupide fossero a pagamento forse la gente  userebbe il pronto soccorso con più responsabilità facendo, in questo modo, diminuire gli accessi. Si potrebbe lavorare con più  serenità, valutando meglio i singoli casi risparmiando qualche soldo ed essendo più efficienti. Altra cosa che cambierei è la degenza dei pazienti in ospedale: fatta una diagnosi, dopo 7 /8 giorni di degenza, andrebbero rimandati a casa. I pazienti non possono stagnare mesi nei reparti anche se poi è quello che succede perchè il medico ha paura di dimetterlo: se lo dimette e non sta bene il parente può minacciare la denuncia. Alla fine ci sentiamo costretti a tenere i pazienti in reparto perché manca il coraggio di dimetterli e questo è un circolo vizioso che dovrebbe avere termine. Tutto questo è a discapito della Sanità e di tutti i cittadini che pagano le tasse per sostenerla. Anche se la Sanità italiana è una delle migliori, io che la vivo da 33 anni posso dirti che con tutto quello che sta accadendo la stiamo rovinando.

 

                     Intervista a cura di Patrizia Del Pidio

                                                                                                                                                                                                   Se vuoi raccontare anche tu la tua storia contattami

 

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