Matteo Renzi non è (ancora) finito, ma potrebbero mancare solo quattro mesi al suo prepensionamento politico. Se anche al referendum costituzionale subirà una sconfitta, il suo governo non esisterà più. E quand’anche dovesse sopravvivere, rimarrebbe in carica nella modalità “zombie”, cosa che tendiamo tutti ad escludere, conoscendo la personalità del premier. In queste ore, molti, dentro e fuori il PD, addebitano il risultato scadente del partito alla presunta “arroganza” del presidente del consiglio. Sarà, ma gli italiani appaiono da sempre pratici e probabilmente dovremmo ricercare altrove le ragioni della debacle renziana, a partire dall’economia.
Quanto sta accadendo a Renzi appare del tutto simile al rapido trend calante di popolarità di un suo illustre predecessore: Silvio Berlusconi. L’allora premier iniziò il 2011 considerato imbattibile, ma lo concluse in auto-esilio politico, dopo essere stato costretto alle dimissioni dalla crisi dello spread, uscendo da Palazzo Chigi tra i fischi di una folla inferocita.
Crisi economica resta, ma si nega la realtà
Allora come oggi, a fare salire il sangue alla testa degli italiani è l’economia. C’è una strana sindrome, che colpisce quasi automaticamente ogni premier, una volta insediatosi a capo del governo: la negazione della realtà. Renzi ci racconta da mesi di essere artefice di un miracolo economico, di avere portato l’Italia fuori dalle secche della recessione e di avere ridato credibilità internazionale al nostro paese.
Quando dalle opinioni si passa ai numeri, si legge una realtà del tutto diversa: il pil nel suo primo anno di governo è diminuito dello 0,4%, mentre nel 2015 è cresciuto di appena lo 0,8%. Quest’anno, se tutto andrà bene, salirà di un altro 1%, meglio di niente, ma per dirla con le parole di Vincenzo Boccia, neo-presidente della Confindustria, non siamo in ripresa.