Banche italiane e BTp, un legame mai così forte come in questi anni. Le prime posseggono i secondi per un controvalore medio di circa 400 miliardi di euro, qualcosa come un quinto dell’intero debito pubblico tricolore negoziabile sui mercati. In valore assoluto, le loro esposizioni risultano più che raddoppiate rispetto agli anni precedenti alla crisi dello spread. Successivamente, vuoi per la convenienza a investire i capitali in titoli divenuti più economici e redditizi, vuoi anche per la montagna di liquidità messa loro a disposizione dalla BCE a costo nullo o quasi, hanno trovato profittevole puntare sui bond del Tesoro, di fatto sicuri, anziché prestare denaro a rischio a famiglie e imprese.
Banche italiane sempre più ghiotte di BTp. E per ora vincono la scommessa, grazie alla BCE
Alla Germania, questo legame non piace, perché a suo dire genera un circolo vizioso tra rischi sovrani e rischi bancari. Quando i conti pubblici sono percepiti instabili, il mercato vende BTp, il loro prezzo diminuisce e ciò colpisce i titoli bancari, in quanto potenzialmente esposte a perdite per la parte dei bond detenuti nei portafogli e “disponibili alla vendita”. Per questo, il ministro delle Finanze tedesco, Olaf Scholz, ha aperto nei giorni scorsi alla garanzia unica sui depositi bancari per l’Unione Europea, ma ribadendo le condizioni irrinunciabili di Berlino, tra cui la valutazione dei titoli di stato in pancia alle banche come non più “risk free”.
Ad oggi, le banche acquistano titoli di stato senza dovere accantonare risorse a copertura dei rischi, a differenza di quanto accade con qualsiasi altra forma di erogazione di prestiti. Secondo i tedeschi, questa situazione crea una distorsione a favore dei debiti sovrani e a sfavore delle economie reali. Le banche sarebbero, in sostanza, incentivate a prestare denaro agli stati, non a chi produce ricchezza e la consuma nel settore privato.
Disastro per BTp, banche e conti pubblici
Se queste due misure, ad oggi ferme sul tavolo della Vigilanza, presieduta dall’italiano Andrea Enria, dovessero prima o poi passare, per i BTp sarebbe un disastro. Le banche italiane (e non solo) se ne libererebbero in grossa parte per non violare le eventuali limitazioni, ma anche per non dovere accantonare risorse a copertura dei rischi. In altri termini, la loro detenzione diverrebbe costosa e in misura superiore a quella di quasi qualsiasi altro bond nell’Eurozona, perché il rating sovrano italiano si colloca nella parte più bassa del comparto “investment grade”, in compagnia dei bond del Portogallo, ben sotto di quelli di Spagna, Austria, Francia, per non parlare di stati con la tripla “A” come Germania, Olanda e Finlandia. Una vendita massiccia e in breve tempo dei BTp avrebbe l’effetto di farne crollare i prezzi e di imporre alle stesse banche finanche pesanti minusvalenze.
Nessun altro canale sarebbe in grado di sostituirsi prontamente alle banche. Le famiglie italiane, ad esempio, posseggono ormai direttamente appena il 5% dei BTp in circolazione, un terzo dei livelli pre-“quantitative easing”, non trovando conveniente immobilizzare i propri risparmi per anni e al fine di ottenere rendimenti miseri. Preferiscono ormai apertamente parcheggiare il denaro in banca, rimanendo liquide. Certo, se la minore domanda istituzionale facesse risalire i rendimenti, tra i risparmiatori tornerebbe l’appetito per i BTp, ma questo vorrebbe dire che lo stato italiano spenderebbe di più per rifinanziarsi, ovvero che i contribuenti sarebbero costretti a pagare interessi crescenti sull’enorme stock di debito pubblico.