L’Italia starebbe stringendo un accordo con Taiwan per aumentare la cooperazione sulla produzione e l’esportazione dei semiconduttori. La notizia è stata riportata questa settimana da Bloomberg, secondo cui sarebbero già avvenuti incontri tra funzionari del Ministero delle Imprese e Made in Italy e rappresentanti di Taipei in una recente visita dei primi sull’isola. In cambio, il governo di Giorgia Meloni avrebbe promesso il ritiro dell’Italia dall’accordo con la Cina noto come “Nuova Via della Seta”. Fu siglato nel 2019 dall’allora governo Conte e, in teoria, avrebbe dovuto vedere il nostro Paese coinvolto in progetti infrastrutturali che non si sono concretizzati.
Meloni dovrà scegliere tra Cina e Taiwan
Ma la questione è geopolitica e spinosa. L’Italia risulta essere stato l’unico membro del G7 ad avere stretto un accordo con la Cina. Alla luce dei recenti eventi, tra cui il sostegno di Pechino alla Russia dopo l’invasione dell’Ucraina, è diventato sempre più imbarazzante mantenerlo in vita. Si rinnoverà automaticamente nel 2024, a meno che il nostro governo decida di ritirarsi. L’ultima parola spetta alla premier, la cui posizione sarebbe contraria all’accordo. Anche perché in gioco ci sono le relazioni diplomatiche con gli Stati Uniti e la partita sui semiconduttori.
Taiwan ne è il secondo produttore al mondo con una quota di mercato nel 2020 del 18,2%. Tuttavia, esporta circa il 90% dei chip di alta gamma. Praticamente, è un hub della tecnologia senza pari nel mondo, pur essendo un’isola di neppure 25 milioni di abitanti. I rapporti con la Cina sono storicamente tesi e si stanno deteriorando ulteriormente con le esercitazioni militari di Pechino al largo delle coste di Taiwan. L’Europa si trova tra due fuochi. Da un lato, ha la necessità di mantenere vive le relazioni commerciali con la Cina, dall’altro non può ignorare la posizione americana.
Con il 23,4% è proprio la Cina ad avere detenuto nel 2020 la più alta quota di mercato nella produzione di semiconduttori. I dati sono del World Semiconductor Council. Completava il podio il Giappone con il 18%, seguito da Corea del Sud al 15,7%. Tenuto conto anche quasi il 5% di Singapore, l’Asia vale più dell’80% di questo mercato strategico, mentre l’Europa è scesa al 9,4% ed è destinata a scendere entro il 2025 al 5%. Male anche gli Stati Uniti con una quota di appena il 10,4%.
Europa e Stati Uniti a caccia di semiconduttori
Tuttavia, sia l’amministrazione Biden che la Commissione europea stanno correndo ai ripari. Il primo ha da tempo varato un piano per la produzione di chip in patria. La seconda ha appena messo a punto il Chips Act da 43 miliardi di euro tra finanziamenti pubblici e compartecipazione dei privati. La quota più alta spetterà a Francia e Germania (e che ve lo diciamo a fare!), ma il nostro Paese potrà accedere ai finanziamenti principalmente attraverso STmicroelectronics, la società controllata pariteticamente dallo stato italiano e quello francese. L’obiettivo del piano europeo è di innalzare la quota di mercato continentale al 20% entro un decennio.
Le nostre importazioni di chip nel 2021 ammontavano a 892 milioni di dollari, l’1,7% delle esportazioni globali da 51,4 miliardi. Non dobbiamo minimizzare il problema in base a queste cifre. Un chip costa anche pochi euro, ma senza di esso non è possibile la fabbricazione di un dispositivo elettronico, un’auto, un elettrodomestico, un robot, ecc. La carenza di chip durante la pandemia è stata e continua tuttora a generare un’offerta insufficiente di numerosi prodotti di largo consumo e durevoli, facendone impennare i prezzi.
Il governo Meloni dovrà decidere sui semiconduttori da che parte stare. Tra l’altro, la notizia è arrivata a pochi giorni dalla disastrosa visita di stato del presidente francese Emmanuel Macron in Cina.