Domenica 23 luglio la Spagna celebra le elezioni anticipate dopo le dimissioni del premier socialista Pedro Sanchez, travolto dalla dura sconfitta accusata dal suo partito alle recenti elezioni amministrative. Se i sondaggi avessero ragione, gli succederà alla guida del governo nazionale il leader del Partito Popolare, Alberto Nunez Feijòo. Tuttavia, per avere la maggioranza assoluta alla Camera dei Deputati, dovrebbe allearsi con Vox, la formazione della destra euro-scettica guidata da Santiago Abascal.
Molti italiani si stupiranno del fatto che in Spagna vi sia così tanta insoddisfazione verso la classe politica.
Anni del boom e poi crisi
Fautore di quel miracolo sul piano politico fu José Maria Aznar, premier a capo del PPE tra il 1996 e il 2004. Se non fosse stato per gli attentati alla stazione di Atocha nella capitale, probabilmente avrebbe ottenuto un terzo mandato. A succedergli vi fu quasi con clamore il socialista Luis Zapatero, che viene ricordato a sinistra soprattutto per la svolta impressa alla Spagna sui diritti civili. Sul piano economico, invece, scelse la via della continuità, ovvero apertura al mercato, flessibilità del lavoro, bassa tassazione e rigore fiscale.
Questa Spagna procedette a passo sostenuto fino al 2008, l’anno della terribile crisi finanziaria mondiale. Nei dodici anni fino ad allora, il PIL era cresciuto alla media annua del 3,6%. L’occupazione era esplosa dal 40% al 55% e in pochi anni erano stati creati circa 6,5 milioni di posti di lavoro.
La “ricostruzione” spagnola poggiava le basi su grandi progetti di ammodernamento infrastrutturale, che avevano favorito l’edilizia. La crisi dei mutui farà precipitare in breve tempo i prezzi delle case e sconquasserà le banche domestiche, costrette a battere cassa al governo per evitare il crac. A sua volta, Madrid otterrà una linea di credito di 100 miliardi di euro dall’Europa, che userà per meno della metà. Nello stesso periodo divampa la crisi del debito sovrano. Lo spread impazzisce e la Spagna più dell’Italia rischia di rompersi il collo. Eviterà il peggio solo l’intervento di Mario Draghi da governatore della Banca Centrale Europea.
Spagna cerca nuovo miracolo economico
Fatto sta che l’economia in Spagna si lasciava alle spalle gli anni del miracolo. Tra il 2008 e il 2019, il PIL crebbe del 10,8%, cioè al ritmo medio di appena l’1% all’anno. Meglio del -4,3% accusato dall’Italia, ma quella è un’altra storia. Allungando lo sguardo al 2022, la crescita annua media è stata dello 0,75%. E nel frattempo il debito pubblico si è impennato da meno del 40% a più del 113% del PIL. Il mercato del lavoro resta il ventre molle dell’economia. Con un tasso di disoccupazione ancora superiore al 13% e un’occupazione al 51%, la Spagna risulta tra i paesi peggiori dell’area OCSE. Nel 2008, l’occupazione era al 55% e la disoccupazione all’8%.
In valore assoluto, malgrado la ripresa degli ultimi anni, esistono minori persone occupate oggi rispetto a quindici anni fa. E i salari reali sono rimasti sostanzialmente invariati in questo lungo periodo. In altre parole, in Spagna il potere di acquisto dei lavoratori non è migliorato di una virgola.
L’insoddisfazione politica degli spagnoli ha certamente a che vedere anche con i frequenti fenomeni di corruzione che vengono allo scoperto di tanto in tanto. Essi riguardano i due principali schieramenti senza grandi differenze. Da sistema bipartitico, ormai da anni la Spagna tende più all’Italia con la presenza di almeno 4-5 grandi partiti sul piano nazionale. Non tutto è da buttare. Di recente avrete sentito che Madrid è prima nell’ottenimento dei fondi europei con il Pnrr. Fa lo stesso da decenni con i fondi ordinari. Se c’è una cosa che dovremmo prendere a modello da essa è la straordinaria capacità di ricevere e spendere fondi per investire. E grazie a questo buon uso, il paese è stato in grado di innescare il miracolo di cui vi abbiamo parlato succintamente.