Il tragico errore della lettera BCE
L’anello debole apparve subito l’Italia: la nostra economia non cresce dall’inizio degli anni Novanta, mentre il rapporto debito/pil si avviava al 120%, il secondo più alto dopo quello ellenico in tutta la UE. Per giunta, il governo Berlusconi, che pure aveva superato un insidioso voto di sfiducia il 14 dicembre del 2010, sembrava poco coeso, lacerato tra liti interne alla coalizione di centro-destra, che esplosero nella tarda primavera, quando il PDL e la Lega Nord persero sonoramente le elezioni amministrative (Milano andò al centro-sinistra a guida Giuliano Pisapia, un esponente radicale).
Deciso a rovesciare le sorti dell’esecutivo, il premier cercò di avocare a sé la gestione delle finanze statali, che fino ad allora erano state saldamente nelle mani del ministro dell’Economia, Giulio Tremonti. L’idea di Berlusconi era di rilanciare l’economia e la sua stessa immagine, appannata dagli
scandali sessuali, con un vigoroso taglio delle tasse. Qui si apre un retroscena ancora oggi non confermato: Tremonti, nel tentativo di non vedersi ridimensionato da Palazzo Chigi, avrebbe scritto al governatore della BCE, l’uscente Jean-Claude Trichet, chiedendogli di mettere in riga Roma. Francoforte scrisse e inviò a Berlusconi la famosa
lettera in 39 punti, che contemplava un nutrito calendario di altrettante riforme, tra cui quella delle pensioni. Nel frattempo, i mercati iniziavano a registrare qualche nervosismo e lo spread schizzava in estate ben oltre i 200 punti base sulla scadenza decennale. In teoria, la lettera della BCE doveva rimanere riservata, ma così non fu (c’è stato lo zampino di qualcuno nel governo Berlusconi?). La sua divulgazione fu una bomba. Gli investitori ebbero la conferma che l’Italia stesse per essere commissariata. Di più, si ragionava: “se cade l’Italia, cade l’euro”.