Nella giornata di ieri il differenziale di rendimento a 10 anni tra Treasury e Bund è sceso in area 100 punti base o 1%, mai così basso dai primi mesi del 2014, cioè da 6 anni a questa parte. In particolare, il rendimento decennale tedesco si è aggirato sul -0,42% e quello americano sullo 0,59%. All’inizio dell’anno, lo spread tra i due bond superava i 200 bp, risultando doppio rispetto ai livelli attuali. Da allora, ad essere variati sono stati essenzialmente i titoli del debito USA, mentre quelli della Germania si sono mossi in un range molto più ristretto, essendo partiti da livelli di rendimento negativi.
BTp al collasso, è fuga verso Bund e Treasury
Dunque, il restringimento dello spread Treasury-Bund è più una storia americana che non tedesca. Il crollo atteso del pil USA nel primo e, soprattutto, nel secondo trimestre, a causa del “lockdwon” deciso dalle autorità statali per affrontare l’emergenza Coronavirus, ha mutato le aspettative del mercato. Fino a febbraio, l’economia americana era attesa in crescita e lontana dalla recessione, mentre le difficoltà della Germania erano ben note da oltre un anno. Adesso, è corsa al dollaro per rifugiarsi nella valuta di riserva mondiale. E quale migliore asset dei Treasuries, che oltre ad essere facilmente e immediatamente liquidabili, sostanzialmente equivalendo al cash, offrono pure un rendimento ancora nettamente superiore a quasi tutti i bond in euro?
Riflessi sul cambio euro-dollaro
E lo spread Treasury-Bund per chi ci segue su Investire Oggi sa che sia un indicatore delle aspettative del mercato sul cambio euro-dollaro. Se gli investitori acquistano titoli del Tesoro americano all’1% in più di rendimento rispetto ai titoli del debito tedesco, significa che ritengono i due rendimenti effettivi alla scadenza equivalenti, una volta tenuto conto del cambio euro-dollaro tra 10 anni.
Questo indebolimento delle prospettive a lungo termine per la moneta unica incorpora una valutazione molto più negativa sull’andamento economico dell’Eurozona. Si tenga presente, ad esempio, che prima della crisi finanziaria mondiale del 2008, il cambio euro-dollaro puntava a 1,60 e che ancora sostava a poco meno di 1,40 nella primavera del 2014, subito prima che la BCE di Mario Draghi si mostrasse più accomodante. Dunque, la “normalizzazione” del cambio starebbe allontanandosi, anziché avvicinandosi, pur scontando le criticità presenti anche dell’economia americana. E ciò è dovuto in considerazione del fatto che la politica monetaria nell’unione monetaria venga attesa ben più espansiva e per un periodo più lungo di quanto già previsto fino al recente passato, perché evidentemente l’area avrebbe bisogno di tassi bassi e interventi straordinari anche per i prossimi anni, a causa della sua economia complessivamente in affanno.