Proseguono le trattative tra Congresso a maggioranza repubblicana e Casa Bianca sull’innalzamento del tetto al debito pubblico negli Stati Uniti. Il limite dei 31.400 miliardi di dollari è stato infranto agli inizi dell’anno. Grazie ad aumenti delle entrate fiscali superiori alle previsioni consentiranno al Tesoro di Washington di calciare il barattolo fino agli inizi di luglio. Dopodiché, il segretario Janet Yellen paventa il default. Non è la prima volta che la superpotenza si trova in simili condizioni. Nel 2011, l’accordo all’ultimo minuto trovato tra i due schieramenti non impedì il declassamento del rating ad opera di S&P.
Il Congresso pone un limite al debito negli Stati Uniti e per innalzarlo serve una sua autorizzazione. Un meccanismo ignoto al resto del mondo, che genera tensioni finanziarie e politiche ogni volta che Congresso e presidenza non siano in mano allo stesso partito. In teoria, il governo americano non è autorizzato a spendere in eccesso rispetto alle entrate indebitandosi, infrangendo il limite legale. Nella pratica, molti analisti sostengono che la Costituzione stessa assegni al presidente il potere di onorare i debiti, anche non autorizzati. Tra l’altro, il Tesoro sarebbe sempre tenuto a rimborsare i titoli di stato e a pagarvi gli interessi.
Debito Stati Uniti su traiettoria insostenibile
Insomma, c’è tanta sceneggiata in questa querelle. Ma gli Stati Uniti hanno realmente un problema di debito. E pure grosso. Ma esso non riguarda il tetto, bensì la sua crescita spaventosa. In appena quindici anni, esso è salito di 22.000 miliardi di dollari. Praticamente, il 70% dello stock è stato accumulato dopo il 2007. La data non è casuale. La crisi finanziaria scatenatasi con il crac di Lehman Brothers fu superata dagli Stati Uniti facendo tantissimi debiti. Lo stato ha speso di gran lunga più delle entrate, così da sostenere l’economia domestica. Il PIL ha retto meglio dell’Europa, ma non ha brillato e, comunque, il sostegno fiscale sta avendo ormai un costo insostenibile.
Tra il 2008 e il 2022, il deficit pubblico medio negli Stati Uniti è stato del 7,5% del PIL. Considerate che nello stesso periodo la vituperata Italia ha registrato un 3,7% scarso. Il rapporto debito/PIL è raddoppiato dal 65% a poco meno del 130%. Nel nostro Paese, è salito dal 104% al 144%. Eppure nessuno punta il dito contro il lassismo fiscale di Washington. In apparenza, è così. Ma da anni si assiste a un incremento dello scetticismo nel resto del mondo verso la sostenibilità delle politiche fiscali negli Stati Uniti. Se l’esplosione del debito non ha prodotto alcuna crisi, lo si deve al ruolo di valuta di riserva mondiale del dollaro.
Questo status garantisce domanda elevata alla divisa americana, cioè anche ai titoli del debito federale denominati in essa. Il resto del mondo è costretto a detenere quantità di dollari per poter acquistare materie prime, commerciare ed effettuare operazioni finanziarie. Dunque, compra i cosiddetti Treasuries e altri asset in dollari allo scopo. Ciò consente al governo degli Stati Uniti di emettere debito a costi contenuti. Tutto ciò si regge sul clima di fiducia che il mondo nutre verso la solvibilità e la solidità fiscale della superpotenza. Se questa fiducia venisse meno, come sta in parte già accadendo, ci sarebbe minore domanda di dollari, ergo anche di Treasuries. Il costo del debito negli Stati Uniti salirebbe e lo stato federale sarebbe costretto ad una maggiore parsimonia.
Status dollaro con ortodossia fiscale e monetaria
Per evitare che la sfiducia divampi e ponga fine al dominio del dollaro sui mercati internazionali, serve che Washington riduca il deficit fiscale fino ad azzerarlo. Ma ciò richiederà tagli alla spesa pubblica e/o aumenti delle imposte. Misure impopolari, che nessuno dei due schieramenti sembra intenzionato ad attuare. In più, la politica monetaria non può permettersi più il lusso di stamperie incessanti.
Più che sanzionare il resto del pianeta per limitare le importazioni, gli Stati Uniti hanno bisogno di spendere meno. I minori consumi anche privati si tradurrebbero in un calo delle importazioni. Ciò sosterrebbe anche il dollaro per la minore domanda di valuta estera. Un circolo virtuoso che consentirebbe alla superpotenza americana di mantenere lo status di valuta di riserva per il dollaro.